Dopo aver constatato che, inserendo il proprio nome e cognome nella barra del motore di ricerca Google, il software di completamento automatico GoogleSuggest o Google Autocomplete suggeriva di includere nella ricerca i termini “arrestato” ed “indagato”, X agiva in via cautelare innanzi al Tribunale di Pinerolo nei confronti di Google, chiedendo che a questa fosse ordinato di eliminare l’associazione tra termini, ritenuta diffamatoria. Secondo X si trattava infatti di un suggerimento contrario al vero, non essendo X stato mai arrestato o indagato, e lesivo della reputazione personale e professionale di X. Il Tribunale ha però escluso la responsabilità di Google e conseguentemente rigettato le richieste cautelari di X, rilevando che le modalità di funzionamento del sistema Google Autocomplete portano ad escludere un’attività illecita da parte di Google. In particolare, poiché l’associazione tra termini avviene in base ad un algoritmo che tiene conto delle rilevazioni statistiche di quali siano le ricerche più comunemente effettuate dagli utenti, secondo il Tribunale l’associazione dei termini “indagato” o “arrestato” al nome di X una volta che questo venga inserito nella stringa di ricerca equivarrebbe a “rendere noto che un certo numero di fruitori di internet si interroghi sul fatto se il ricorrente sia o meno stato coinvolto in vicende penali e voglia verificare se nel web vi siano informazioni in proposito … il fatto può paragonarsi ad una mera diffusione, senza secondi o maliziosi fini, di una notizia avente il menzionato contenuto”. Non ravvisando alcun carattere diffamatorio o illecito in detto contenuto, con ordinanza in data 2 maggio 2012 il Tribunale di Pinerolo ha escluso che la fattispecie possa rientrare nei casi in cui all’Internet Service Provider può essere ordinata la rimozione ex art. 16 d lgs. 70/2003. Si tratta di una motivazione che è destinata a far discutere. Il nodo da sciogliere è infatti se l’associazione tra termini suggerita a mezzo del software Autocomplete combinando informazioni tra loro diverse e separate, lasciate da utenti terzi, possa essere qualificato come semplice hosting di contenuti, o se piuttosto questo non sia un vero e proprio servizio aggiuntivo che Google – agendo come content provider e non come semplice hosting – fornisce ai propri utenti mettendoli nelle condizioni di effettuare ricerche più veloci, mirate ed efficaci. In quest’ultimo caso – e a prescindere dall’effettiva portata diffamatoria dei termini “arrestato” e “indagato” (comunque inesistente, secondo il Tribunale) – si dovrebbe escludere che il suggerimento dell’associazione a termini offensivi possa essere scriminato in quanto semplice “cronaca” delle ricerche effettuate da altri utenti. Di questo avviso sembra essere il Tribunale di Milano, che nel decidere un caso praticamente identico a quello in questione, già commentato sul nostro blog (qui), ha rigettato il reclamo proposto da Google, ritenendo che “l’associazione tra il nome del ricorrente e le parole “truffa” e “truffatore” è opera del software messo a punto appositamente adottato da Google per ottimizzare l’accesso alla sua banca dati operando con modalità descritte e … prescelte per consentirne l’operatività allo scopo voluto (quello appunto di agevolare l’utilizzo del motore di ricerca Google) .. non può che conseguirne la diretta addebitabilità alla società”. Mi sembra si possa dire che siamo di fronte ad un netto contrasto giurisprudenziale. Restiamo in attesa di ulteriori sviluppi.