Just a couple of days ago, the announcement by the Court that no agreement could be reached among Member States and therefore the competencies of the London seat of the Central Division would be split between Paris and Munich opened a debate on the possibilities for Milan to host the Central Division.

The Italian Government has however now announced – in no uncertain terms – that an agreement was reached with France and Germany and that Milan will indeed host the third seat of the Central Division. The decision will be formalized during the next meeting of the Administrative Committee.

From the press release of the Minister of Foreign Affairs: “The Italian government has agreed with France and Germany to establish in Milan the third seat of the Central Division of the Unified Patent Court. The arrangement will be submitted to the other UPC contracting states at the next Administrative Committee meeting. […] In these weeks the Italian government, in cooperation with the local government entities, is completing the legal and operational procedures so that the seat can be established and be operational within a year.”

Notably, the press release does not address the hot issue of which competencies will be assigned to the Milan seat of the Central Division (whether all those originally assigned to London by the UPC Agreement, or a subset thereof), simply stating that this will have jurisdiction over “important cases” in matters relevant for the Italian industry.

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Grana_Padano_DOP_Riserva.jpg

‘Grana’ è una parola descrittiva e, pertanto, non tutelabile se non accompagnata dall’aggettivo ‘Padano’. Questa è la decisione del Tribunale di Torino, che, con sentenza del 17 febbraio 2023, ha ritenuto la parola ‘Grana’ un termine descrittivo, la cui tutela è data soltanto dall’associazione con l’aggettivo ‘Padano’, ribaltando in questo modo la giurisprudenza di merito sino ad ora formatasi sul punto.

‘Grana Padano’: il riconoscimento della DOP e la tutela normativa

La denominazione di origine protetta ‘Grana Padano’ trova la sua prima tutela a livello nazionale con il D.P.R. n. 1296/1955, emanato in attuazione della L. n. 125/1954, con cui è stata introdotta in Italia la disciplina delle denominazioni nazionali di origine.

La suddetta tutela è stata, poi, estesa a livello europeo con il Reg. UE n. 1107/1996, con cui la denominazione ‘Grana Padano’ è stata riconosciuta quale denominazione di origine protetta comunitaria, con conseguente applicabilità in via esclusiva del Reg. UE n. 1151/2012, sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari, con cui sono state, fra l’altro, istituite le DOP e le IGP.

Da quel momento, dunque, la DOP ‘Grana Padano’ gode di una tutela rafforzata in tutto il territorio comunitario che, ai sensi dell’art. 13 del Reg. UE n. 1151/2012, si realizza in caso di qualsiasi impiego commerciale diretto o indiretto di una denominazione registrata per designare prodotti che non sono oggetto di registrazione ovvero mediante usurpazione, imitazione o evocazione della medesima denominazione di origine. La salvaguardia della DOP ‘Grana Padano’ è stata affidata alla competenza del relativo Consorzio, in forza del decreto del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali.

La vicenda

Il procedimento nasce dall’azione promossa dal Consorzio di tutela dinanzi al Tribunale di Torino nei confronti del Caseificio Fiandino, produttore del formaggio ‘Gran Riserva Italia’, al quale è stata contestata l’evocazione della DOP ‘Grana Padano’ in genere e, in particolare, della categoria ‘Riserva’ ex art. 13 del Reg. UE citato.

La vicenda trae origine dall’attività di sorveglianza svolta dagli agenti di vigilanza del Consorzio del Grana Padano, i quali, in data 27 maggio 2019, hanno rinvenuto nel punto vendita Eurospar di Milazzo (ME), un campione di formaggio a pasta dura da grattugia di Caseificio Fiandino, che, sullo scalzo, aveva impresso a fuoco un logo recante la dicitura ‘Gran Riserva Italia’.

La forma tondeggiante del logo, le caratteristiche dalla stampigliatura a fuoco del prodotto – non coperto dalla DOP ‘Grana Padano’ – nonché la similarità fonetica dei termini ‘Gran’ e ‘Riserva’ rispetto a ‘Grana Padano’ configurano, secondo il Consorzio attore, una evocazione e/o un illegittimo uso diretto o indiretto della DOP ‘Grana Padano Riserva’ ai sensi dell’art. 13 del Reg. UE citato.

Per tali ragioni, il Consorzio del Grana Padano ha adito il Tribunale di Torino, chiamato a decidere sull’evocatività dell’uso dei termini ‘Gran’ e ‘Riserva’ rispetto alla DOP ‘Grana Padano Riserva’.  

La decisione del Tribunale di Torino: il termine ‘Grana’ ha valore solo se associato a ‘Padano’

Il Tribunale torinese ha rigettato le richieste del Consorzio, escludendo qualsiasi somiglianza visiva, concettuale e fonetica tra i prodotti rispettivamente contraddistinti come ‘Gran Riserva Italia’ e ‘Grana Padano Riserva’.

In particolare, i giudici torinesi hanno rilevato che la parola ‘Gran’ utilizzata dal caseificio convenuto non è evocativa della parola ‘Grana’ “sia perché essa è un mero aggettivo riferito al sostantivo generico ‘Riserva’, sia perché essa stessa, essendo un vocabolo generico della lingua italiana, deve ritenersi liberamente utilizzabile”. Secondo il Tribunale, quindi, i vocaboli ‘Gran’ e ‘Riserva’ costituiscono rispettivamente un termine generico e di uso comune e, pertanto, sono liberamente utilizzabili per indicare prodotti caseari a pasta dura, senza che ciò costituisca una violazione della DOP ‘Grana Padano’ ex art. 13 Reg. UE citato.

Tuttavia, per quanto il suddetto principio enunciato dai giudici torinesi sia condivisibile, meno sembra esserlo quello espresso dai medesimi giudici con riferimento alla tutelabilità del termine ‘Grana’ quale componente della denominazione di origine. A tale riguardo, infatti, il Tribunale ha ritenuto non tutelabile la parola ‘Grana’ se non accompagnata dall’aggettivo ‘Padano’, “poiché è proprio nell’origine geografica che si sostanzia l’essenza e la ratio della tutela azionata”.

Per tali ragioni, secondo i giudici torinesi, la mancanza di un riferimento alla zona di origine del formaggio di parte attrice (i.e. pianura padana) sul prodotto di parte convenuta esclude la ricorrenza di un’ipotesi di evocazione della DOP ‘Grana Padano’.

In definitiva, dunque, la Sezione Specializzata del Tribunale di Torino non ha ritenuto sussistente la violazione per illecita evocazione della DOP ‘Grana Padano’ ex art. 13 Reg. UE citato, ponendosi in controtendenza rispetto all’orientamento giurisprudenziale sino ad ora formatosi in punto di genericità del termine facente parte di una denominazione di origine.

La questione esaminata dal Tribunale torinese, infatti, non è sconosciuta alla giurisprudenza di merito che, pochi mesi prima, si è già pronunciata sul punto.

Una simile questione era stata già decisa dal Tribunale di Venezia, con sentenza del 25 maggio 2022, nella causa instaurata dal Consorzio di tutela del Grana Padano nei confronti di Brazzale S.p.a., società produttrice del formaggio ‘Gran Moravia’. In tale occasione, i giudici veneziani hanno escluso la genericità del termine ‘Grana’, sostenendo che ogni tentativo di chiamare ‘Grana’ un formaggio similare costituisce un’illecita evocazione della DOP ‘Grana Padano’. In particolare, il Tribunale ha rilevato che “il termine ‘Grana’ riferito al formaggio indichi un prodotto caseario, certamente con peculiari caratteristiche produttive e di consistenza della pasta che possono essere comuni ad una più ampia gamma di formaggi, ma che precisamente riconduce ad uno specifico luogo o regione di origine, individuato nel nord Italia e, in particolare, nella pianura padana”.

Alla luce della richiamata pronuncia veneziana, pertanto, l’esito della sentenza torinese appare ancor più rilevante, rendendo a questo punto attesa, o quanto meno necessaria, la decisione dei giudici di secondo grado.

On 22 March 2023 the European Commission published a proposal for a Directive on Green Claims affecting commercial communications that associate products/services with environmental or ecological benefits.

The proposal complements and specifies an earlier proposal for a Directive on empowering consumers for the green transition[1], and is thus part of a framework of strategic initiatives and action policies adopted by the European Union (EU) in support of the circular economy, and aims to decrease the impact of climate change in order to achieve climate neutrality.

The strategy pursued by the EU cannot disregard the active participation of consumers in the ecological transition, which requires their adequate protection against unfair commercial practices that prevent them from making informed and sustainable choices. Such practices include greenwashing, in which companies make false environmental declarations in the context of their communication strategies, aimed at building a deceptively positive image of the company as to its environmental impact, with the clear objective of capturing the attention and interest of consumers.

In 2020, the Commission carried out a study of more than 150 environmental claims for a wide range of products and found that more than 53% of them were too “vague, misleading or unfounded”, and that 40% were not supported by adequate technical and scientific evidence. These data show that companies/traders have an increasing interest in providing misleading environmental information on their products/services, to the detriment of consumers wishing to make more sustainable and responsible purchasing choices, and of virtuous companies suffering from unfair competition.

From the need to contrast this increasingly widespread phenomenon comes the provision of specific rules on the subject, aimed at setting minimum requirements for the verification of environmental claims adopted by traders and thus improving the reliability of the information conveyed to consumers, facilitating their choice of products and/or services that offer better environmental performance.

First, the proposal aims to regulate the voluntary environmental claims[2] of the companies concerning the environmental impact and performance of their products/services, providing that they be clear and adequately substantiated. Inter alia, voluntary declarations will have to specify whether they relate to the company’s entire production or only to a particular product, one of its components, or one of its life cycle stages, in order to “make it possible to identify the environmental impacts and environmental aspects for the product or trader that jointly contribute significantly to the overall environmental performance of the product or trader”. Furthermore, voluntary claims will have to be validated by widely recognised scientific evidence, and evaluated by independent, accredited, verifying organisations, which will decide whether to issue a certificate of conformity valid throughout the EU.

Should the proposal become law, it would no longer be possible to use vague and ambiguous claims such as “climate neutral”, “carbon neutral” or “100% CO2 compensated”, if they do not meet all the requirements of the Directive. Indeed, traders will be required to avoid claims expressed in broad or absolute terms, instead having to circumscribe to the precise environmental benefit claimed, which, of course, will have to be properly verified and supported by technical evidence.

The proposed Directive also regulates so-called environmental labels and their schemes, such as the EU Ecolabel and its national equivalents, awarded to products and/or services that are produced and marketed with a reduced environmental impact. The EU has noted that more than 200 environmental labels are currently in use and their further proliferation could lead to consumer confusion, as well as to a loss of value of existing labels. To address this, the Commission has advanced the possibility of preventing new public labelling schemes from being proposed unless they are developed exclusively within the EU. As a result, any new private scheme will have to prove that it pursues more ambitious environmental objectives than existing ones, while obtaining prior approval in order to be officially authorised.

Naturally, the proposal also regulates the enforcement of the provisions contained therein, whose compliance is to be ensured by the Member States by means of appropriate control systems and by the provision of penalties, with varying amounts depending on the nature and seriousness of the violations ascertained.

The proposal will soon be assessed by the European Parliament and the Council for their joint approval and, in the event of a positive outcome, the Member States will have to incorporate the Directive into their respective legal systems to ensure its uniform application within the EU territory.

Currently in Italy there are no specific legislations on environmental claims, so they are regulated by the general provisions of the Consumer Code on unfair commercial practices, those of the Civil Code on unfair competition, as well as the regulations on misleading advertising. The framework is completed by the European Directive 2005/29/EC and the Guidance on the implementation/application of directive 2005/29/EC on Unfair Commercial Practices issued by the European Commission on 25 May 2016, which contains useful guidelines on green claims, for example that they be formulated “in a clear, specific, accurate and unambiguous manner”.

Additionally, a provision specifically dedicated to commercial communications of an environmental nature is contained in Article 12 of the Italian Code of Self-Discipline for Commercial Communications, according to which “marketing communication that claims or evokes benefits of an environmental or ecological nature must be based on truthful, relevant and scientifically verifiable data”.

The above-mentioned provision was referred to by the Court of Gorizia in the first (and only) Italian court ruling on greenwashing[3]. In this landmark decision, the judge acknowledged that generic expressions such as “environmentally friendly”, “natural choice”, “100% recyclable” constitute to all intents and purposes misleading advertising when they are not clear, verifiable or supported by solid scientific evidence.

In the context of fragmented national regulations, the Green Claims Directive could therefore be an effective tool to limit greenwashing and related unfair commercial practices that are growing exponentially in parallel with the environmental awareness of the consumers.


[1] European Commission proposal of 30 March 2022 amending Directives 2005/29/EC on unfair commercial practices and 2011/83/EU on consumer rights.

[2] On the other hand, the proposed Directive does not cover voluntary declarations that are already regulated by other EU rules, such as the EU Ecolabel, as the relevant existing legislation already guarantees their reliability.

[3] Court of Gorizia, order of 25 November 2021 (Alcantara S.p.A vs. Miko S.r.l.). The order was then appealed by Miko S.r.l. and overturned by the Court of Gorizia in March 2022, on the basis that Alcantara had been unable to provide any evidence that Miko’s environmental claims had resulted in a risk of loss of customers for Alcantara.

Most countries in the world have pledged to achieve “net zero” gas emissions by 2050, and many have taken a number of steps to accelerate the transition to clean energy and reduce emissions.

While the success of these efforts will depend on a variety of factors including policy, technology and infrastructure development, a recently published report by the European Patent Office (EPO) and the International Energy Agency (IEA) suggests that the number of patent applications concerning hydrogen related technologies can serve as a good indicator of which countries and sectors are best positioned to attract investments and develop solutions needed to transform from fossil fuel based production to low emission methods.

The report, which represents the most exhaustive and global up-to-date investigation of hydrogen-relating patenting so far,  analyzed global patent data and covered a broad range of technologies from supply chain to end-use applications. The study found that the EU and Japan lead global hydrogen related technologies patenting, accounting for 28% and 24% respectively.

The leading country in Europe is Germany with 11% of the total, followed by France 6% and the Netherlands 3%. While the US holds third place with 20% of all hydrogen related patents, it is interesting to note that the number of applications has been declining over the past decade. Other countries generating significant volume of hydrogen patents include United Kingdom, Switzerland and Canada.

The breakdown of the numbers of patent innovations across the supply chain shows that among all hydrogen patents filed between 2011 and 2020, the hydrogen production technology accounted for the largest number of applications, specifically technologies for low emissions methods such as fuel cells, producing hydrogen from gas and electrolysis, a sector in which Europe has gained an edge in new manufacturing capacity.

In terms of industries that file most hydrogen patent application, the automotive and the chemical industries have gained the strongest momentum regarding innovation and patenting. Furthermore, Universities and Public Research Institutes generated 13% of all hydrogen related international patents between 2011 and 2020.

However, other industries such as long-term transport, aviation, power generation and heating are slower to look for innovative ways to use hydrogen and reduce CO2 emissions, which raises concerns about some countries meeting their net zero pledges by 2050.

Updates about current status of discussions regarding the third seat of the central division of the UPC recently surfaced on the Italian press and in parliamentary activities.

Recent reports confirm that France and Germany would have agreed to move the seat from London to Milan, on condition of withholding some competences in Munich (apparently, chemistry and metallurgy) and others in Paris (apparently, pharmaceutical patents with SPCs), which would require an amendment to Annex II of the UPCA, removing the relevant IPC classes from the ones originally assigned to the London seat.

Multiple ministries of the Italian government involved in UPC negotiations, including Minister of Justice Carlo Nordio who most recently reached out to his French and German counterparts, are said to be strongly against this solution, insisting that a better compromise be found (cf. the 24 February article published by “Il Sole 24 Ore”, available here).

Rumors of such developments seem to have also reached the Italian Parliament, with a number of MPs raising concerns on the transfer of the third seat of the Central Division from London to Milan and the set of competences to be assigned thereto, asking the competent ministries to provide an update on the initiatives to be deployed to ensure that all IPC classes originally assigned to London be transferred to Milan (see question 5-00352 of 13 February, available here).

The reports so far surfaced note that whilst the transfer of the London seat of the central division to Milan may be seen as falling under Article 87(2) UPCA (i.e. an amendment to the UPCA which can be independently decided by the Administrative Committee to bring the UPCA in line with Union law, assuming one qualifies the legal consequences of Brexit as changes to Union law in application i.a. of Article 50 TEU), it is more questionable whether the same considerations would apply to amendments to the allocation of competences of Annex II to the UPCA. In other words, it is argued, whilst Brexit requires an amendment to the provision of the UPCA identifying the location of the third seat of the central division, it is more questionable whether it also requires a change of the allocation of competences decided by the drafters of the UPCA in Annex II.

With an order issued on 17 November 2022 (available here), the Court of Venice, Second Chamber, has enjoined Ravensburger AG, Ravensburger Verlag GmBH and Ravensburger S.r.l. from using for commercial purposes the image of the famous drawing of the Vitruvian Man, drawn by Leonardo da Vinci in 1490, setting a penalty of EUR 1,500 for each day of delay by Ravensburger in complying with the decision of the Court.

The order, which was issued on appeal following a previous rejection on grounds of lack of competence, is based on the Italian Cultural Heritage and Landscape Code (Legislative Decree no. 42 of 22 January 2004, hereinafter “Cultural Heritage Code”), which under Article 106 et seq. provides i.a. that public territorial bodies or cultural institutions may request concession fees to allow the use and reproduction of cultural property they have on consignment and in any event assess whether such uses are compatible with the cultural purpose of such works of art.

According to Article 108, the concession fees may be calculated i.a. based on the nature of the activities to which the concessions of use refer, the means of reproduction, the use and purpose of the reproductions, as well as the economic benefits to the applicant.

The case was brought together with the Minister of Cultural Heritage by the “Gallerie dell’Accademia”, one of the main State museums in Venice, which has the Vitruvian Man on display (although rarely available to the public for preservation purposes).

As reported in the order, the Gallerie had informed Ravensburger of the circumstances which led to the injunction already in 2019, sending out a cease and desist letter and requesting that Ravensburger pay the 10% royalty provided by the internal regulation of the museum (adopted in accordance with the Cultural Heritage Code) in order to use the image of the Vitruvian Man drawing for its puzzles.

In deciding the case, the Court of Venice rejected various objections raised by Ravensburger, including the objection that the Cultural Heritage Code could only apply to the activities in Italy. To the contrary, the decision notably extended application of the Cultural Heritage Code also to the German counterparts of the Ravensburger group, on grounds that Italian law would apply to the entire matter, which reflects a unitary conduct by the defendants, and that the conducts of the Ravensburger defendants abroad also affect the image of the artwork which is located in Venice.

Sono oggi sempre più diffusi sistemi di intelligenza artificiale “creativi” che, attraverso meccanismi di apprendimento automatico profondo (deep learning) implicanti un addestramento su imponenti set di dati, tipicamente reperiti online, sono in grado di generare immagini, testo, o linee di codice a partire da un semplice testo in pochi secondi.

Le potenzialità dischiuse dalle modalità di apprendimento dell’IA devono fare i conti, nel campo della creatività, con le problematiche giuridiche relative alla tutela del diritto d’autore. Invero, l’enorme mole di dati presenti su Internet che vanno a comporre i set di dati utilizzati per il training dell’algoritmo (raccolti tramite c.d. web-scraping, ossia estrazione, “raschiamento”, di dati dal web) comprende naturalmente anche contenuti coperti da copyright.

Si sta dunque assistendo, in queste settimane, al proliferare di azioni legali intraprese da titolari di diritti d’autore nei confronti di alcune delle principali società produttrici di strumenti IA, addestrati utilizzando milioni di materiali online protetti da copyright senza il consenso del legittimo titolare.

Le prime azioni legali negli USA e in UK

Una prima azione giudiziaria di questo tipo è stata avviata dinnanzi alla Corte Federale di San Francisco il 3 novembre 2022, contro le società GitHub, Microsoft (proprietaria di GitHub) e OpenAI. I relativi software di intelligenza artificiale, GitHub Copilot e OpenAI Codex, sono software generatori di linee di codici, i quali avrebbero sfruttato l’enorme mole di codici altrui presenti nella piattaforma open-source di GitHub per produrre propri codici, senza rispettare i diritti di licenza degli utenti come disciplinati dai termini e condizioni d’uso della piattaforma stessa.

Sempre negli USA, a gennaio 2023, le artiste Sarah Andersen, Kelly McKernan e Karla Ortiz hanno promosso una class action volta a contestare la legalità dei software generatori di immagini Stable Diffusion, Midjourney e DreamUp, facenti capo, rispettivamente, alle aziende Stability AI, Midjourney e DeviantArt. In particolare, il trio di artiste ha contestato la violazione dei propri diritti d’autore, insieme a quelli di un imprecisato, estesissimo numero di artisti, tramite l’addestramento delle IA su database online contenenti miliardi di immagini e fotografie – tra cui le proprie -, a cui le società hanno attinto senza il consenso dei legittimi titolari per addestrare i rispettivi software e permetter loro di creare opere artistiche che riproducono lo stile e le caratteristiche delle altrui creazioni immagazzinate e rielaborate. I profili di illegittimità prospettati dalle artiste non coinvolgono dunque le sole modalità di apprendimento delle IA, estendendosi anche agli output da esse generati, in ragione della frequente somiglianza tra il prodotto finale dell’algoritmo e l’opera altrui protetta.

Parallelamente, Stability AI e la sua Stable Diffusion sono state coinvolte in un’altra vicenda giudiziaria, instaurata presso la Corte Federale del Delaware e presso l’Alta Corte di Giustizia di Londra dalla società Getty Images, leader mondiale nella creazione e distribuzione di immagini, video e, in generale, prodotti digitali di vario tipo. Getty Images possiede propri siti web open-access contenenti una cospicua raccolta di contenuti multimediali protetti da copyright, tra cui in particolare immagini fotografiche di elevato livello artistico a cui solitamente vengono associati un titolo e una didascalia, oltre ad ulteriori metadati. Secondo Getty Images, nonostante i termini e le condizioni dei propri siti web proibiscano espressamente la riproduzione non autorizzata dei materiali ivi contenuti per finalità commerciali, Stability AI avrebbe comunque copiato senza apposita licenza oltre 10 milioni di immagini e i relativi testi e metadati associati per addestrare la propria Stable Diffusion.

L’addestramento su tali dati consente al software di imparare, tramite apprendimento automatico profondo, la relazione sussistente tra l’immagine e il relativo testo associato, e di generare quindi output quanto più possibile accurati rispetto alle richieste dell’utente. Al contempo, però, poiché le immagini di proprietà di Getty Images sono associate a didascalie molto dettagliate, addestrandosi su di esse il software molto spesso crea opere del tutto simili a quelle di Getty, di cui ne assomma le caratteristiche. Non solo, in molti casi l’output generato da Stable Diffusion riporta persino una versione modificata della filigrana recante il marchio Getty Images.

La società attrice dunque non lamenta la sola violazione dei propri diritti di copyright da parte di Stability AI, ma anche il fatto che l’output generato da Stable Diffusion creerebbe confusione sull’origine delle immagini implicando una falsa associazione tra le due società concorrenti, avvalorata anche dall’indebita riproduzione della propria filigrana.

Eccezioni al diritto d’autore: USA, UK e UE a confronto

Queste vicende, che diventeranno verosimilmente sempre più frequenti nel prossimo futuro, suggeriscono alcune considerazioni. In primo luogo, occorre rilevare che non sarà sempre agevole individuare la prova del fatto che il set di dati su cui l’IA è stata addestrata conteneva effettivamente contenuti protetti, visto che molto spesso tali set non sono liberamente accessibili.

Segue poi una ulteriore questione: le modalità di addestramento delle IA generative integrano effettivamente violazione di copyright, oppure le eccezioni al diritto d’autore previste dai diversi ordinamenti giuridici includono nella loro sfera applicativa anche l’addestramento e l’attività “creativa” dei software?

Si è osservato che le prime azioni giudiziarie contro le presunte violazioni di copyright delle IA sono state instaurate in America, ove le eccezioni al diritto d’autore sono regolate secondo la dottrina giuridica del “fair use”: le Corti, nella valutazione della asserita condotta illegittima, devono prendere in considerazione una serie di parametri quali lo scopo dell’utilizzo di opere altrui (ad esempio, se l’utilizzo avvenga per finalità di ricerca o, al contrario, per scopi commerciali), la natura dell’opera soggetta a copyright, la quantità e l’importanza della porzione sfruttata rispetto all’opera nel suo complesso, nonché l’effetto dell’utilizzo sul mercato o sul valore dell’opera originale[1].

Il fair use consente quindi ai giudici di applicare in modo flessibile le regole sul copyright e di contemperare le esigenze in gioco a seconda delle specificità del caso concreto. Ne consegue che non necessariamente l’utilizzo di un’opera altrui sarà considerato equo solo quando lo stesso avvenga per finalità non lucrative, potendo anche una finalità di tipo commerciale costituire, a seconda dei casi, un fair use[2].

In UK, l’eccezione di “fair dealing” al diritto d’autore si limita essenzialmente a consentire l’utilizzo dell’opera altrui per finalità non commerciali, ad esempio per scopi di ricerca, studio personale, critica, parodia, recensione e per riportare notizie[3]. Ha pertanto dei limiti ben più stretti e legislativamente definiti rispetto al fair use americano (verosimilmente uno dei motivi per cui Getty Images ha deciso di instaurare l’azione legale contro Stability AI anche in UK oltreché negli Stati Uniti), nonostante il governo inglese abbia recentemente proposto di estendere l’eccezione in esame ad ogni finalità.

Per quanto riguarda l’Unione Europea, la c.d. Direttiva Copyright (n. 790/2019) ha introdotto una espressa disciplina delle eccezioni al diritto d’autore per le operazioni di text e data mining (TDM), ossia quelle procedure informatiche di estrazione e rielaborazione di grandi quantità di testi/dati. In particolare, l’art. 3 della Direttiva prevede un’eccezione di TDM effettuata per finalità di ricerca scientifica da organismi di ricerca ed istituti di tutela del patrimonio culturale, mentre l’art. 4 disciplina un’eccezione di portata più generale, ai sensi della quale l’attività di TDM è consentita a qualsiasi soggetto quando non vi sia stata espressa riserva d’uso da parte del legittimo titolare. Entrambe le eccezioni sono poi accomunate dal fatto che i soggetti interessati devono aver avuto legalmente accesso agli altrui materiali coperti da tutela autorale.

La Direttiva è stata recepita in Italia con il d. lgs. n. 177/2021, che ha sostanzialmente mutuato le sopracitate previsioni negli articoli 70-ter e quater della Legge sul Diritto D’Autore[4].

Il futuro delle IA generative: questioni aperte

In questo scenario, è evidente che l’attività generativa dei sistemi di intelligenza artificiale è destinata ad incontrare ostacoli non facilmente superabili nel contesto europeo, tradizionalmente propenso a garantire ampia tutela alla personalità dell’artista e al suo diritto morale sull’opera. Solo per citarne alcuni, la previsione della ricerca scientifica (art. 3 Direttiva e art. 70-ter LDA) come sola finalità legittimante l’eccezione, o ancora la possibilità di deroga contrattuale delle operazioni di TDM a libera discrezione del titolare dei diritti (artt. 4 Direttiva e 70-quater LDA). Pertanto, future azioni legali simili a quelle sopra descritte potrebbero trovare terreno fertile in Europa, ove i titolari di diritti d’autore avrebbero interesse a sfruttarne la legislazione favorevole per ottenere una remunerazione nel caso di utilizzo di proprie opera nell’addestramento delle IA generative.

Per il futuro delle IA generative sarà quindi dirimente il modo in cui nei prossimi mesi le Corti si pronunceranno riguardo alle sopramenzionate azioni legali, posto che ne scaturiranno precedenti utili per risolvere casi analoghi che, come si è osservato, saranno sempre più frequenti. Tali decisioni avranno anche un significativo impatto sull’interpretazione di altre problematiche giuridiche che inevitabilmente sorgono con riguardo ai sistemi di intelligenza artificiale generativi, inter alia la ripartizione di responsabilità tra utilizzatori e sviluppatori per le violazioni commesse dai primi e la titolarità del diritto d’autore sulle opere create dalle IA. Occorrerà dunque attendere i prossimi sviluppi giurisprudenziali in materia, a cui, auspicabilmente, seguirà una regolamentazione più puntuale del complesso rapporto tra diritto e intelligenza artificiale.


[1] Si veda la sezione 107 del Copyright Act statunitense, che definisce il framework legislativo attraverso cui i giudici attuano l’eccezione di fair use ai diritti esclusivi.

[2] Tipicamente, lo sfruttamento di un’opera per finalità commerciali è accolto come valida eccezione ai diritti di privativa altrui nel caso in cui l’uso sia “trasformativo”, ossia aggiunge qualcosa di ulteriore all’opera stessa.

[3] Sezioni 29 e 30 del Copyright, Designs and Patents Act (1988).

[4] Legge n. 633 del 22.04.1941.

The German government has announced to have deposited the instrument of ratification of the Agreement on a Unified Patent Court (UPCA). This is the much-awaited last step needed for the Unified Patent Court (UPC) to become operational. 

Following the ratification of Germany, the UPC will open its doors and will be ready to receive its first cases on 1 June 2023, in line with the expected timeline set by the UPC Administrative Committee. The new court will be common to 17 EU countries initially (with the option for more countries to join in the future), and will have exclusive jurisdiction to assess validity and infringement of current European Patents and future European Patents with unitary effect.

The last preparatory steps, including training of judges and final testing of the court electronic case management system, are still being carried out and will be completed during the so-called Sunrise Period starting on 1 March 2023. Beginning on this date, holders of European Patents will also be able to file requests to opt-out of the jurisdiction of the new court.

The upcoming months will also be crucial to reach a political consensus between participating member states on whether Milan will be the location of the third seat of the central division of the court.

The Next Rembrandt” [ING Group, CC BY 2.0 https://creativecommons.org/licenses/by/2.0, via Wikimedia Commons]

Nelle ultime settimane il fenomeno ChatGPT è esploso; se per la maggior parte degli utenti questo suscita curiosità e desiderio di torchiare il robot con le domande più disparate, per i giuristi – soprattutto quelli che si occupano di proprietà intellettuale – la capacità di quest’ultimo di essere in grado di scrivere storie e commedie ha suscitato anche numerosi interrogativi circa la protezione dei contenuti generati dal chatbot.

L’intelligenza artificiale

“Intelligenza artificiale” (“IA”) è un’espressione tanto usata quanto poco compresa. L’IA è quella branca dell’informatica che si occupa di sviluppare sistemi in grado di emulare il comportamento umano e, in particolare, l’apprendimento, il ragionamento e l’auto-correzione. Tra le numerose applicazioni dell’IA quella che viene maggiormente sfruttata è il machine learning, nelle sue variazioni di supervised learning e unsupervised learning, di reinforcement learning e, infine, di deep learning. Tutte queste tecnologie, in gradi diversi, prevedono l’addestramento del sistema a riconoscere degli schemi ricorrenti (i c.d. pattern) nei dati che gli vengono forniti e ad applicare tali schemi a nuovi dati, più o meno autonomamente. In particolare, ChatGPT è allenato secondo il reinforcement learning, ossia un metodo nel quale il modello acquisisce capacità e le consolida grazie alle critiche e ai riconoscimenti che riceve dai suoi addestratori (umani).

Per fornire un’idea delle abilità che modelli di IA sono riusciti a sviluppare si pensi ad una delle prime opere create da un sistema di machine learning, ossia “The Next Rembrandt”. In tal caso, il sistema ha analizzato l’intera collezione di Rembrandt per carpire quali fossero le caratteristiche della pennellata del pittore neerlandese ed è così riuscito a creare un ritratto che riproduce perfettamente il suo stile, tanto che, a prima vista, nulla lascerebbe intendere che non sia un dipinto originale. ChatGPT, dunque, è solo l’ultimo (e, forse, il più perfezionato) modello di IA sulla scena artistica mondiale.

La progressiva autonomia del sistema rispetto all’uomo che lo ha programmato, tuttavia, solleva innumerevoli problemi giuridici, perché rende problematico ricondurre l’azione artificiale alla sfera di controllo dell’essere umano, soggetto che il diritto ha sempre riconosciuto e tutt’ora riconosce come titolare di diritti ed obblighi. Questa difficoltà colpisce e mette in crisi anche il diritto d’autore, che parte dal presupposto indefettibile che l’autore sia un essere umano.

Le problematiche legate al diritto d’autore

In virtù di questo principio il giurista è chiamato a rispondere ai seguenti quesiti: può essere protetta l’opera creata da un sistema di IA? Se sì, chi è il titolare del diritto d’autore?

Occorre premettere che, al momento, non ci sono disposizioni, né interne né comunitarie, atte a regolare nello specifico il fenomeno dell’IA, per cui ogni ragionamento è condotto sulla base di quanto scritto nella – ormai risalente – legge sulla protezione del diritto d’autore (l. 633/1941).

Il primo requisito per accedere alla tutela del diritto è che l’oggetto degno di potenziale protezione sia un’opera dell’ingegno rientrante negli elenchi di cui agli artt. 1 e 2 l. aut. Per “opere dell’ingegno” si intendono le opere che appartengono alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, alla cinematografia e al teatro, nonché i programmi per elaboratore, le banche di dati e le opere del disegno industriale. Dal momento che le opere create da un sistema di IA rientrano in queste categorie – come visto, ChatGPT redige articoli e copioni di stand-up comedy, The Next Rembrandt dipinge –, nulla ostacolerebbe l’accesso di tali opere alla tutela offerta dal diritto d’autore. Per giunta, il carattere solo esemplificativo dell’elenco che ha, nel tempo, con elasticità, accolto nuove tipologie di opere anche meramente tecniche lascia presagire una possibile apertura in tal senso.

In secondo luogo le opere dell’ingegno per poter essere protette debbono possedere carattere creativo. L’orientamento tradizionale interpreta il concetto di creatività come l’estrinsecazione della personalità dell’autore; la creatività così connotata è, quindi, sempre stata una prerogativa attribuita esclusivamente al genio umano. È chiaro che, in questo senso, l’opera dell’algoritmo non può essere creativa, non avendo esso una personalità né potendola, tantomeno, manifestare. Al contempo, un orientamento minoritario di matrice anglosassone si accontenta che l’opera sia originale, da intendersi dunque come non copiata da altri. Alla luce di questa impostazione non sussistono valide ragioni per non concedere protezione alle opere dei sistemi di IA, perché all’opera, per poter essere tutelata, è richiesta una creatività priva di qualsiasi riferimento umano, che concerne solo il risultato e non il processo o la personalità dell’autore.

Malgrado le evidenze precedenti, il fatto che l’autore dell’opera da proteggere debba essere un essere umano esclude che le opere AI-generated possano essere tutelate dal copyright.

Le tutele alternative per le opere create dagli algoritmi

Ciò, tuttavia, avrebbe un effetto disastroso sul mercato della creatività e dell’innovazione, perché gli autori non sarebbero motivati né a creare sistemi di IA né a divulgare opere da questi ultimi generati, vista la prospettiva di non vedere riconosciuto il proprio lavoro, nel quale hanno investito tempo – ma, soprattutto, essendo tecnologie costose – denaro.

È quindi una concezione prettamente utilitaristica quella che afferma la necessità di riconoscere una tutela autorale alle opere create da sistemi di IA, a patto di individuare un soggetto umano a cui attribuire il diritto. La spettanza del diritto ad un soggetto altro è suggerita dalla disciplina anglosassone del “work for hire”, secondo la quale l’acquisto a titolo originario dell’opera realizzata nell’ambito di una prestazione di lavoro avviene in capo al datore di lavoro. Così, rivisitando il concetto di rapporto di lavoro, l’autore del sistema di IA, il “datore di lavoro”, sarebbe il titolare dei diritti sull’opera creata dal sistema di IA “lavoratore”. Sulla scorta di questa interpretazione, diverse tesi individuano il titolare nel programmatore o nell’utilizzatore del sistema di IA. Altra dottrina, invece, giustifica la titolarità di questi ultimi sulla base dell’art. 7 l. aut., che considera autore dell’opera collettiva chi organizza e dirige la creazione dell’opera stessa. Questa interpretazione risponderebbe più correttamente al modus operandi della interoperabilità dell’umano e del sistema di IA, dal momento che l’umano risulterebbe appunto titolare dell’opera creata sotto la sua organizzazione e direzione. Ancora, alcuni autori, per non snaturare la ratio del diritto d’autore, ma, allo stesso tempo, per premiare, in ogni modo, lo sforzo creativo e gli investimenti dei finanziatori delle opere create dai sistemi di IA, propongono di concedere diritti connessi o diritti sui generis. Una singolare soluzione è, altresì, quella dell’autore fittizio, seguita, ad esempio, dal tribunale di Shenzhen Nanshan (Repubblica popolare cinese), che nel gennaio 2020 ha riconosciuto la paternità dell’opera al sistema di IA suo creatore, fingendo che fosse una persona giuridica costituita dall’umano programmatore.

L’ultima strada sarebbe quella che prevede l’attribuzione del diritto d’autore al sistema di IA. Tuttavia dal punto di vista prettamente civilistico l’algoritmo, allo stato odierno, non è ancora maturo per essere incluso nel novero dei soggetti di diritto: infatti, il sistema di IA non è in grado di porsi all’interno di un rapporto giuridico, non ha facoltà decisionale o interessi propri. Al momento appare quindi esagerato riconoscere una personalità all’algoritmo (come è allo studio avanti al Parlamento europeo[1]), perché l’algoritmo non potrebbe godere di quello status giuridico e non potrebbe nemmeno usufruire dei diritti che gli verrebbero riconosciuti in maniera effettiva, data la posizione servile che è naturalmente portato ad assumere rispetto all’umano che lo ha programmato o attivato.

In conclusione, secondo l’attuale quadro legislativo, le opere dei sistemi di IA sono destinate a non essere protette dal diritto d’autore e ad essere liberamente fruibili, ma non è da escludere – anzi, si auspica – che il legislatore delinei una forma di tutela per queste opere, soprattutto quale incentivo e riconoscimento – anche meramente economico – per l’umano che si cela dietro l’algoritmo.

Su questa scia è significativo come anche la Corte di Cassazione abbia recentemente riconosciuto la necessità di affrontare i temi legati all’arte digitale. Con ordinanza del gennaio 2023, la Corte, nell’esaminare la doglianza della ricorrente che lamentava l’erronea qualificazione, da parte del giudice del grado precedente, di un’immagine generata da un software come opera dell’ingegno e, pertanto, la non attribuibilità della stessa ad un’idea creativa dell’autrice che, in tesi della ricorrente, si sarebbe limitata ad approvare il risultato generato dal software, ha – seppur solo incidentalmente, essendo stato il motivo dichiarato inammissibile per ragioni processuali – prima di tutto affermato come l’utilizzo di un software nel processo creativo di un’immagine non è “certamente sufficiente” per negare il carattere creativo di un’opera dell’ingegno e come tale utilizzo imponga solo uno scrutinio maggiormente rigoroso del tasso di creatività, volto a “verificare se e in qual misura l’utilizzo dello strumento [abbia, N.d.R.] assorbito l’elaborazione creativa dell’artista che se ne era avvalsa[2]. Dunque, nell’ipotesi in cui, all’esito di tale accertamento di fatto, venga accertata la prevalenza della creatività digitale su quella umana, rimangono aperti gli interrogativi esaminati, interrogativi che, ora, la Corte di Cassazione lascia intendere è necessario colmare.


[1] Risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2017 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla robotica (2015/2103(INL)).

[2] Corte Cass., sez. I, ordin. n. 1107 del 16.01.2023.

Green light dell’UE alla polvere di grillo nei prodotti alimentari. Ecco cosa dice l’UE, cos’è, dove si potrà trovare, perché utilizzarla, i dati e le previsioni sul mercato dei grilli.

La decisione dell’UE

A seguito della domanda presentata, in data 24 luglio 2019, da parte della società vietnamita Cricket One Co. Ltd, la Commissione Europea, con il Reg. Esec. UE n. 5 del 3 gennaio 2023, acquisito il parere favorevole dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA), ha autorizzato (ai sensi del Reg. UE 2283/2015) l’immissione sul mercato UE della polvere parzialmente sgrassata di ‘Acheta domesticus’ (grillo domestico), che si va così ad aggiungere all’‘Elenco’ dei ‘Novel Food’.

Con il termine ‘Novel Food’ si indicano quelle sostanze, alimenti o ingredienti che non fanno parte della tradizione culinaria europea, perché non significativamente consumati come alimenti prima del 15 maggio 1997 e perché la sostanza o il prodotto appartengono a delle classi espressamente elencate dalla relativa norma definitoria (art. 3, co. 2, Reg. 2283/2015).

Si tratta del terzo insetto approvato per il consumo umano come ‘Novel Food’, dopo la ‘larva gialla della farina’ (larva di Tenebrio molitor), autorizzata con il Reg. Esec. UE n. 169 dell’8 febbraio 2022 e la ‘locusta migratoria’, ammessa con il Reg. Esec. UE n. 1975 del 12 novembre 2021.

La Commissione ha deciso che, per un periodo di 5 anni a partire dal 24 gennaio 2023, solo la società richiedente (i.e. Cricket One Co. Ltd) sarà autorizzata a immettere sul mercato europeo il nuovo alimento. È possibile per un richiedente successivo ottenere un’autorizzazione per tale nuovo alimento solo laddove non faccia riferimento ai dati scientifici della richiedente o con il consenso della stessa società vietnamita. L’inserimento del nuovo alimento [i.e. polvere parzialmente sgrassata di Acheta domesticus (grillo domestico)] nell’“Elenco dell’Unione dei nuovi alimenti”, di cui al Reg. UE 2470/2017, insieme alle relative caratteristiche tecniche, sono disciplinati nell’All. Reg. Esec. 5/2023.

Nel suo parere scientifico l’EFSA ha concluso che la polvere parzialmente sgrassata di Acheta domesticus è sicura alle condizioni e ai livelli d’uso proposti. L’approvazione dell’EFSA arriva dopo un processo di verifica riguardante diversi aspetti volti a garantire la sicurezza del nuovo alimento per il consumatore, anche in termini di corretta etichettatura.

In particolare, l’EFSA ha evidenziato che il consumo della farina di grillo può provocare una sensibilizzazione alle proteine di Acheta domesticus, le quali, rivelandosi potenzialmente allergeniche, devono essere oggetto di ulteriori ricerche. Tuttavia, la Commissione Europea ha ritenuto che non sia necessario precisare la questione in etichetta, perché non ci sono prove conclusive che collegano direttamente il consumo di Acheta domesticus a dei casi di sensibilizzazione primaria e allergie. Sempre l’EFSA ha, comunque, rilevato che il consumo della polvere può provocare reazioni nelle persone allergiche ai crostacei, ai molluschi e agli acari della polvere, aggiungendo che, se il substrato con cui vengono alimentati gli insetti contiene ulteriori allergeni, quest’ultimi possono ripresentarsi nel nuovo alimento.

Cos’è il nuovo alimento e dove si potrà trovare

Come si legge nell’All. Reg. Esec. 5/2023, si tratta di polvere parzialmente sgrassata ottenuta da Acheta domesticus (grillo domestico) intero mediante una serie di fasi, che prevedono un periodo di digiuno di 24 ore degli insetti per consentire lo svuotamento intestinale, l’uccisione degli insetti mediante congelamento, il lavaggio, il trattamento termico, l’essiccazione, l’estrazione dell’olio (estrusione meccanica) e la macinazione.

La nuova polvere di grillo potrà essere inserita (alle condizioni, in termini di quantità e di etichettatura, previste nell’All. Reg. Esec. 5/2023) in pane e panini multicereali, cracker e grissini, barrette ai cereali, premiscele secche per prodotti da forno, biscotti, prodotti secchi a base di pasta farcita e non farcita, salse, prodotti trasformati a base di patate, piatti a base di leguminose e di verdure, pizza e prodotti a base di pasta, siero di latte in polvere, prodotti sostitutivi della carne, minestre e minestre concentrate o in polvere, snack a base di farina di granturco, bevande tipo birra, prodotti a base di cioccolato, frutta a guscio e semi oleosi, snack diversi dalle patatine e preparati a base di carne. Le etichette dei prodotti che la contengono dovranno riportare la dicitura “polvere parzialmente sgrassata di Acheta domesticus (grillo domestico)”.

Perché utilizzare la polvere di grillo

Secondo la società vietnamita il nuovo alimento incontra almeno 4 dei 17 ‘Obiettivi di Sviluppo Sostenibile’ stabiliti dalle Nazioni Unite nel 2015 che, un po’ irrealisticamente, dovrebbero realizzarsi entro il 2030: fine della povertà, fine della fame nel mondo, introduzione di modelli responsabili di produzione e di consumo e interventi per contrastare i cambiamenti climatici.

A sostegno del consumo di prodotti a base di insetti e, nella specie, di polvere di grillo, se ne deve considerare, innanzitutto, l’altissimo valore proteico (circa il 69%), quasi il doppio rispetto alla carne. Inoltre, a differenza delle proteine ​​vegetali, si tratta di proteine ​​complete, di alta qualità, contenenti tutti gli amminoacidi essenziali. Ancora, i grilli sono una fonte ricca di fibre e minerali come il calcio e il ferro, di vitamina B12 e di acidi grassi omega 3.

Anche a livello di risorse ambientali la produzione dei grilli è senza dubbio ecosostenibile. Da un lato, infatti, i grilli necessitano di un quantitativo di acqua e di terra nettamente inferiore rispetto a quello del mondo bovino, per produrre lo stesso quantitativo di proteine. Dall’altro, mentre le industrie del bestiame sono la seconda causa mondiale dell’inquinamento atmosferico, i grilli producono l’1% di gas serra.

Le previsioni di mercato

Uno studio pubblicato a marzo 2022 intitolato “Mercato dei grilli per prodotto (grilli interi, grilli in polvere), specie (grilli domestici), applicazione (grilli interi lavorati, integratori proteici in polvere, barrette proteiche di grilli, bevande), uso finale (nutrizione umana, nutrizione animale) – Previsioni globali al 2029” ha stimato che il mercato globale dei grilli raggiungerà i 3,50 miliardi di dollari entro il 2029 e crescerà a un tasso di crescita annuale composto (CAGR) del 28,6% durante il periodo di previsione dal 2022 al 2029. Per l’industria mondiale degli insetti, si prevede un aumento del valore fino a circa un miliardo di dollari nel 2023 per poi arrivare a 4,6 miliardi di dollari nel 2027, con un tasso di crescita medio annuo del 44%. Questo perché i grilli, e più in generale gli insetti, sono consumati, come alimenti, già in diversi Paesi del mondo.

Sebbene l’Italia apparentemente non sembri pronta e ben disposta a portare in tavola prodotti a base di insetti, vi sono già diverse realtà nazionali che, con la loro produzione di insetti 100% Made in Italy, possono rassicurare chi mette in discussione questi prodotti perché provenienti da Paesi extra UE. Due esempi sono la Italian Cricket farm con sede a Scalenghe (TO) e la startup innovativa milanese ALIA Insect Farm.

Stando, però, all’altissimo livello di garanzia su food safety e nutritional safety offerto dal Reg. UE n. 2283/2015 (Novel Foods Regulation) i consumatori possono senz’altro fidarsi e provare ad assaggiare i nuovi alimenti a base di farina di grillo, che pare abbia il gusto della nocciola.

La società richiedente, infatti, al fine di ottenere l’autorizzazione, ha presentato un articolato dossier, comprendente studi e prove scientifiche, attestanti che il nuovo alimento non comporta rischi associati alla sicurezza per la salute umana. Tale dossier, come suddetto, è stato attentamente vagliato dall’EFSA, che ha verificato la sicurezza alimentare e l’assenza di svantaggi nutrizionali del novel food alle condizioni d’uso proposte dal richiedente, con l’unica avvertenza, però, che andrà segnalata la possibile sensibilità alle proteine dei grilli da parte di soggetti allergici a crostacei, molluschi e acari.

Dopo l’EFSA a pronunciarsi è stata la Commissione, o, più precisamente, il Comitato permanente per le piante, gli animali, gli alimenti e i mangimi (SCPAFF), dove siede un rappresentante per ogni Stato membro e si vota a maggioranza qualificata. Alla decisione scientifica dell’EFSA si va ad aggiungere, così, quella politica, anch’essa favorevole, degli Stati membri.

Quello dei novel food è un trend già in corso ed in continua crescita, soprattutto nel segmento delle proteine alternative a quelle di derivazione animale. È stato stimato che a livello mondiale, entro il 2035, tale comparto passerà dall’attuale 2% all’11% del mercato complessivo delle proteine, per un valore attorno ai 290 miliardi di dollari.

La polvere di grillo, allora, potrà rappresentare veramente il cibo del futuro?