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Today more than ever, Europe is focused on sustainable prosperity and competitiveness. Its institutions aim at creating an environment in which businesses can thrive and people can prosper.

It is with this goal ahead that the European Commission tasked Mario Draghi – former President of the European Central Bank and former Italian Prime Minister – to draft a report of his vision of the future of European competitiveness and innovation.

The vast report, available here, deals in the first part with the policies to be adopted in ten major areas of the European economy (energy, critical raw materials, digitalization and advanced technologies, high-speed/capacity broadband networks, computing and AI, semiconductors, energy-intensive industries, clean technologies, automotive, defence, space, pharma and transport). In the second part, the report sets out a number of horizontal policies aimed at accelerating innovation, closing skills gap, sustaining investment, revamping competition and strengthening governance.

In this context, and more specifically in relation to the goal of accelerating innovation, Draghi stressed the need to achieve a more favorable and simpler regulatory ecosystem for innovative companies, underlining repeatedly throughout the report the fundamental role of patents and in general of IP rights protection to sustain innovation. Draghi also noted that the Unitary Patent system is a key tool to achieve such an innovative ecosystem.

In the words of the report, “Fully adopting the Unitary Patent system in all EU Member States would reduce patent application costs, offer broader and uniform territorial protection of IPR for patent holders, and limit litigation uncertainty through the jurisdiction of the Unified Patent Court. To support the uptake of the EU Unitary Patent system and promote the protection of Intellectual Property Rights, training programmes for IPR professionals should be enhanced and possibly subsidized”.

To date, 24 Member States have signed the Agreement on a Unified Patent Court (UPCA), while only 18 Member States have ratified it (Romania just joined the system on 1 September 2024). Ireland is the likely next country to join, although the referendum necessary for the ratification of the UPCA has been deferred to an unknown date.

The emphasis on the Unified Patent system in Draghi’s report not only reaffirms the willingness of the European institutions to continue to support the new court and to work together with the Member States to ensure the adoption and implementation of the UPCA throughout the EU, but also again confirms the relevance of effective and efficient patent protection for the competitiveness of European businesses.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata, a gennaio di quest’anno, sul tema della tutela dei diritti esclusivi conferiti dal marchio e, nello specifico, sull’ambito di applicazione dell’uso referenziale del marchio nel settore dei pezzi di ricambio per automobili.

I FATTI DI CAUSA

Il caso concerneva la promozione e commercializzazione di griglie per radiatori, quali pezzi di ricambio non originali per autoveicoli Audi, contenenti un elemento progettato per il fissaggio dell’emblema di Audi la cui forma riproduceva il marchio figurativo di titolarità di Audi stessa.

Lamentando la riproduzione del proprio marchio figurativo su pezzi di ricambio non originali, Audi conveniva in giudizio il venditore delle suddette griglie per radiatori affinché il Tribunale regionale di Varsavia inter alia vietasse la loro pubblicazione, importazione, offerta in vendita e commercializzazione.

Nel contesto di tale procedimento venivano sottoposte alla Corte di Giustizia alcune domande pregiudiziali vertenti sull’estensione del diritto conferito al titolare di un marchio dell’Unione europea di vietare a terzi che operano nel settore dei pezzi di ricambio l’uso nel commercio di un segno identico o simile al proprio marchio.

L’INTERPRETAZIONE DELLA NORMATIVA RILEVANTE OFFERTA DALLA CORTE DI GIUSTIZIA

Ai sensi dell’articolo 9 del Regolamento 2017/1001 (infra, anche solo RMUE), il titolare di un marchio dell’Unione europea gode del diritto esclusivo di vietare a terzi l’uso nel commercio (i) di qualsiasi segno identico al proprio marchio in relazione a prodotti o servizi identici a quelli per i quali il marchio è stato registrato, (ii) di un segno che, a motivo della sua identità o somiglianza con il marchio e dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi contraddistinti da tale marchio e dal segno, possa dare adito a un rischio di confusione per il pubblico, (iii) nonché di un segno identico o simile al marchio, anche per prodotti o servizi non simili a quelli coperti da registrazione, se il marchio gode di notorietà nell’Unione e l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio oppure rechi pregiudizio agli stessi.[1]

Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, il suddetto diritto può essere esercitato ove il terzo faccia uso del segno “nel commercio”, vale a dire nel contesto di un’attività commerciale finalizzata a un vantaggio economico[2] , e ove tale uso pregiudichi o possa pregiudicare una o più funzioni del marchio (tra le quali sono annoverate la funzione essenziale di garantire l’identità di origine del prodotto o servizio, la funzione di garanzia della qualità del prodotto o servizio e le funzioni di comunicazione, investimento e pubblicità).

La Corte di Giustizia rileva che nel corso del procedimento a quo è stato accertato (i) che le griglie per radiatori non sono prodotti provenienti dal titolare del marchio e non sono state immesse nel commercio con il suo consenso, (ii) che la forma dell’elemento progettato per il fissaggio dell’emblema di Audi è identica o simile al marchio figurativo di Audi e (iii) che la sua apposizione sulle griglie per radiatori ai fini della loro commercializzazione rappresenta un uso nel commercio del segno.

La Corte prosegue poi la propria analisi constatando che l’elemento per il fissaggio dell’emblema, riproduttivo del marchio di Audi, è collocato sulla griglia per radiatori in modo tale che, fino a quando l’emblema di Audi non è fissato, il segno identico o simile a tale marchio è visibile per il pubblico di riferimento. A parere della Corte, “un fatto del genere è tale da concretizzare l’esistenza di un collegamento materiale tra questo stesso pezzo, che un terzo importa, pubblicizza e propone in vendita, e il titolare del marchio AUDI”.[3]

Ciò detto, nel settore della produzione e commercializzazione dei pezzi di ricambio, occorre conciliare l’interesse alla tutela dei diritti di proprietà industriale (incluso quello di marchio) con la necessità di preservare una concorrenza non falsata tra costruttori di autoveicoli e venditori di pezzi di ricambio non originali, nonché con l’interesse dei consumatori a poter scegliere tra l’acquisto di pezzi di ricambio originali e l’acquisto di pezzi non originali.

Nella legislazione in tema di disegni e modelli, questa esigenza di bilanciamento tra opposti interessi ha tra l’altro portato all’introduzione della cosiddetta clausola di riparazione di cui all’art. 110 del Regolamento 6/2002[4], in virtù della quale è esclusa la protezione quale disegno o modello comunitario per un disegno o modello che costituisca una componente di un prodotto complesso utilizzato allo scopo di consentire la riparazione di tale prodotto complesso al fine di ripristinarne l’aspetto originario. L’ambito di applicazione della suddetta clausola è tuttavia limitato ai soli disegni o modelli comunitari, non contemplando il Regolamento 2017/1001 sul marchio dell’Unione europea alcuna disposizione analoga al suddetto art. 110 ed essendone esclusa l’applicazione per analogia al diritto dei marchi.[5]

Tuttavia, pur ribadendo il principio della stretta applicabilità della clausola di riparazione ai soli disegni o modelli, la Corte di Giustizia chiarisce che ciò non esclude che l’obiettivo di preservare una concorrenza non falsata trovi riconoscimento anche nel settore dei marchi. Rileva a tal fine, per esempio, l’art. 14 RMUE che, in specifiche situazioni ivi espressamente indicate, limita il diritto del titolare di un marchio dell’Unione europea di opporsi all’uso da parte di un terzo di un segno identico o simile a detto marchio.

Tra le circostanze contemplate dall’art. 14 RMUE viene menzionato anche il cosiddetto uso referenziale del marchio, vale a dire l’uso in commercio del marchio per identificare o fare riferimento a prodotti o servizi propri del titolare di tale marchio, specie se tale uso è necessario per contraddistinguere la loro destinazione, in particolare come accessori o pezzi di ricambio (cfr. art. 14, par. 1, lett. c) RMUE). Legittimare l’uso del marchio a fini referenziali significa consentire ai fornitori di prodotti o di servizi complementari a quelli offerti dal titolare di un marchio di utilizzare tale marchio al fine di informare, in modo comprensibile e completo, il pubblico sulla destinazione del prodotto commercializzato o del servizio offerto e quindi “sul nesso utilitaristico esistente tra i loro prodotti o i loro servizi e quelli del suddetto titolare del marchio”.[6]

Ciò premesso, occorre quindi stabilire se l’uso del marchio di Audi sulle griglie per radiatori oggetto del procedimento a quo possa o meno qualificarsi come uso referenziale del marchio altrui.

A parere della Corte di Giustizia, l’uso del marchio figurativo di Audi oggetto del procedimento a quo non può qualificarsi alla stregua di un uso referenziale del marchio, in quanto la scelta della forma dell’elemento progettato per il fissaggio dell’emblema di Audi è guidata dalla volontà di commercializzare una griglia per radiatori che riproduca il più fedelmente possibile quella originale, non dalla necessità reale di contraddistinguere la destinazione del pezzo di ricambio.

In altre parole, l’apposizione sui pezzi di ricambio di un segno che riproduce il marchio figurativo di Audi eccede l’uso a scopo di riferimento nella misura in cui non è finalizzata ad informare i consumatori che detti pezzi di ricambio sono destinati ad essere integrati nei prodotti di Audi. Ed è assolutamente irrilevante che oggetto del presente procedimento sia un elemento di un pezzo di ricambio per autoveicoli, poiché il Regolamento 2017/1001, al contrario della disciplina sul disegno o modello comunitario, non opera alcuna distinzione in base al settore merceologico di riferimento.

CONCLUSIONE

In conclusione, nella misura in cui l’uso di un marchio dell’Unione europea di titolarità altrui non persegue una funzione strettamente identificativa della reale destinazione del prodotto o servizio (unico interesse che trova tutela nell’art. 14, par. 1, lett. c) RMUE), il titolare di tale marchio potrà legittimamente vietare a terzi l’uso nel commercio di un segno identico o simile al proprio marchio, anche ove essi operino nel settore dei pezzi di ricambio.


[1] Cfr. sentenza del 2 aprile 2020, Coty Germany, C‑567/18, EU:C:2020:267, punto 31.

[2] Cfr. sentenza del 12 novembre 2002, Arsenal Football Club, C‑206/01, punto 40; sentenza del 23 marzo 2010, Google France e Google, da C‑236/08 a C‑238/08, EU:C:2010:159, punto 50.

[3] Cit. par. 40 della sentenza in commento, 25 gennaio 2024, Audi, C-334/22, EU:C:2024:76.

[4] Regolamento (CE) n. 6/2002 del Consiglio, del 12 dicembre 2001, su disegni e modelli comunitari.

[5] Cfr. ordinanza del 6 ottobre 2015, Ford Motor Company, C‑500/14, EU:C:2015:680, punti 39, 41 e 42.

[6] Cit. punto 54 della sentenza di commento. Sul punto si vedano anche: sentenza del 17 marzo 2005, Gillette Company e Gillette Group Finland, C‑228/03, EU:C:2005:177, punti 33 e 34; sentenza dell’11 gennaio 2024, Inditex, C‑361/22, EU:C:2024:17, punto 51.

Con decisione del 5 giugno 2024, il Tribunale dell’UE ha fornito importanti chiarimenti sull’uso di un marchio in relazione a specifici prodotti e servizi registrati.

Fatti del procedimento

Nell’aprile 2017 è stata presentata una domanda di decadenza per non uso del marchio UE n. 62638 “BIG MAC” di titolarità di McDonald’s International Property Co. Ltd (“McDonald’s”).

La domanda ha avuto ad oggetto i seguenti prodotti e servizi nelle classi 29, 30 e 42, relativi a vari prodotti alimentari e servizi di ristorazione:

  • Classe 29: Alimenti a base di carne, maiale, pesce e pollame, panini imbottiti a base di carne, panini imbottiti a base di pesce, panini imbottiti a base di carne di maiale, panini imbottiti a base di pollo, frutta e ortaggi conservati e cotti, uova, formaggi, latte, prodotti a base di latte, sottaceti, dolci;
  • Classe 30: Panini imbottiti, panini imbottiti a base di carne, panini imbottiti a base di carne di maiale, panini imbottiti a base di pesce, panini imbottiti a base di pollo, biscotti, pane, dolci, biscotteria, cioccolato, caffè, succedanei del caffè, tè, senape, semola di avena, pasticceria, salse, condimenti, zucchero;
  • Classe 42: Servizi prestati da ristoranti o riguardanti la gestione e il franchising di ristoranti e di altri locali o strutture destinati alla fornitura di cibi e bevande per il consumo e per strutture drive-in; preparazione di alimenti da asporto; progettazione dei suddetti ristoranti, locali e strutture per terzi; pianificazione della costruzione e consulenza per la costruzione di ristoranti per terzi.

L’11 gennaio 2019, la Divisione di Annullamento EUIPO ha accolto la domanda e ha dichiarato decaduti i diritti di McDonald’s in relazione a tutti i summenzionati prodotti e servizi.

Su ricorso di McDonald’s, il 14 dicembre 2022, la Commissione di Ricorso EUIPO ha annullato la decisione della Divisione di Annullamento, ritenendo che le prove fornite da McDonald’s dimostrassero l’estensione dell’uso del marchio contestato per parte dei prodotti e servizi contestati, ossia:

  • Classe 29: Alimenti a base di carne e pollame; panini imbottiti a base di carne; panini imbottiti a base di pollo;
  • Classe 30: Panini imbottiti, panini imbottiti a base di carne, base di pollo;
  • Classe 42: Servizi prestati da ristoranti o riguardanti la gestione e il franchising di ristoranti e di altri locali o strutture destinati alla fornitura di cibi e bevande per il consumo e per strutture drive-in; preparazione di alimenti da asporto.

La decisione della Commissione di Ricorso è stata impugnata dinanzi al Tribunale adducendo che le prove fornite da McDonald’s fossero insufficienti a dimostrare l’uso effettivo del marchio contestato in relazione a

(i) “panini imbottiti a base di pollo” e “alimenti a base di pollame” in Classe 29;

(ii) “alimenti a base di carne” in Classe 29 e “panini imbottiti” in Classe 30;

(ii) i servizi rivendicati in Classe 42 .

La decisione del Tribunale

Nell’esaminare il ricorso e la documentazione presentata nel corso del procedimento, il Tribunale ha ritenuto:

(i) Insufficiente l’uso per “panini imbottiti a base di pollo” e “alimenti a base di pollame

Le prove depositate da McDonald’s in merito ai “panini imbottiti a base di pollo”, consistenti in stampe di manifesti pubblicitari, screenshot di uno spot televisivo trasmesso in Francia nel 2016 e screenshot dell’account Facebook di McDonald’s Francia del 2016, non fornivano chiare indicazioni sulle quantità, regolarità e ricorrenza della distribuzione dei prodotti, in quanto tali documenti

  • non contenevano alcuna indicazione sui prezzi di vendita di tali prodotti;
  • non contenevano alcuna informazione specifica sui dati di vendita;
  • non contenevano alcuna chiara indicazione della data in cui i manifesti pubblicitari e i pannelli dei menu erano stati diffusi al pubblico o della data di commercializzazione dei prodotti in questione;
  • si riferivano a un solo anno (cioè il 2016).

Il Tribunale ha inoltre ricordato che la decisione della Commissione di Ricorso aveva ritenuto provato l’uso per “alimenti a base di pollame” sulla base della prova dell’uso per “panini imbottiti a base di pollo”. Tenuto conto però che il Tribunale ha ritenuto non provato l’uso per “panini imbottiti a base di pollo”, il Tribunale ha di conseguenza annullato la decisione impugnata con riferimento a “alimenti a base di pollame”.

(ii) Sufficiente l’uso per “alimenti a base di carne” e “panini imbottiti

Ritenuto che McDonald’s ha fornito la prova dell’uso effettivo del marchio contestato in relazione ai “panini imbottiti a base di carne”, il Tribunale ha considerato provato l’uso anche per “alimenti a base di carne” e “panini imbottiti”. Il Tribunale ha infatti ritenuto che tali categorie di prodotti non potessero essere suddivise in ulteriori sottocategorie, non costituendo una categoria di prodotti sufficientemente ampia e avendo il medesimo uso o scopo, trattandosi di alimenti contenenti carne, destinati a essere consumati e a soddisfare esigenze nutrizionali specifiche.

(iii) Insufficiente l’uso per i servizi in Classe 42

Il Tribunale ha riconosciuto che la decisione della Commissione di Ricorso aveva commesso un errore di valutazione nell’interpretare i servizi registrati come servizi di ristorazione (fast-food) per fornire alimenti e bevande ai clienti, in quanto:

  • il significato letterale dei termini che compongono i servizi interessati non si riferisce alla nozione di servizi di ristorazione nell’ambito dei quali prodotti alimentari e prodotti bevande verrebbero forniti ai clienti, ma per supportare servizi destinati ai professionisti della ristorazione, come i servizi relativi alla gestione o al funzionamento di un ristorante, poiché si tratta, da un lato, di servizi forniti o legati alla gestione di ristoranti e altri esercizi o infrastrutture di questo tipo e, dall’altro, di servizi legati alla preparazione di cibi da asporto

Tanto premesso, il Tribunale, dopo aver esaminato gli elementi di prova presentati da McDonald’s, ossia

  • fotografie delle confezioni utilizzate per panini a base di carne;
  • fotografie di brochure promozionali;
  • schermate dei siti web e dell’account Facebook di McDonald’s;
  • screenshot di spot televisivi e di video su YouTube;
  • fotografie di menu utilizzati nei ristoranti McDonald’s;
  • sondaggi;
  • articoli di giornali e riviste ed estratti di articoli dell’enciclopedia online Wikipedia;
  • una lettera del Direttore Generale di un’associazione tedesca di datori di lavoro e di categoria nel settore delle catene di ristorante;

ha ritenuto che nessuno di tali elementi di prova si riferisse ai servizi in questione, anche se intesi come servizi di fast-food, provando che il marchio è utilizzato esclusivamente in relazione a “panini a base di carne”. Pertanto, a giudizio del Tribunale, le prove non dimostrano un uso effettivo per i servizi di ristorazione rivendicati (ossia “servizi prestati da ristoranti o riguardanti la gestione e il franchising di ristoranti e di altri locali o strutture destinati alla fornitura di cibi e bevande per il consumo e per strutture drive-in; preparazione di alimenti da asporto”).

Alla luce di quanto precede, il Tribunale ha parzialmente accolto il ricorso, con ciò confermando che la portata della prova d’uso su determinati prodotti e servizi non può essere estesa a prodotti e servizi che, per quanto affini, non sono strettamente coperti dalla prova.

One year after the UPC was launched and the Local Division (“LD”) in Milan became operational, the Milan seat of the Central Division (“CD”) is now active, adding to the seats in Paris and Munich.

The Milan Central Division, located in via San Barnaba 50, 20122, is presided by Mr. Andrea Postiglione, an experienced judge at the Commercial Chamber of the Court of Rome and recently appointed as General Attorney at the Italian Supreme Court. Judge Andrea Postiglione took his oath in Milan on 21 June 2024, before the Presiding judge of the Milan LD Mr. Pierluigi Perrotti and at the presence of the other legally qualified judge of the Milan LD, Ms. Alima Zana.

Ms. Anna-Lena Klein, judge in the 21st Civil Chamber of the Regional Court of Munich and Ms. Marije Knijff, judge at the District Court of The Hague in the Netherlands, are the other two judges who will work alongside Mr. Postiglione at the CD in Milan. Additional information on the Judges at the Milan Central Division are available at this link.

What is going to change with the new UPC Central Division in Milan?

As a general rule, UPC Local and Regional divisions have jurisdiction over infringement actions, while Central Divisions deal with patent validity and non-infringement actions. There are also exceptions to this general rule on allocation of cases, such as infringement actions against defendants without offices within the territory of contracting states having a Local or Regional Division. This increases the flexibility for patentees, as the CD provides another layer of forum shopping in infringement cases where the main infringer is located outside the territory of contracting member states with a Local or Regional division. 

The distribution of cases within the Milan, Paris and Munich Central Divisions is guided by the International Patent Classification (IPC) of the patent in suit, which provides for a hierarchical system of language independent symbols for the classification of patents and utility models according to the different areas of technology to which they pertain.

Milan has jurisdiction over disputes relating to patents falling under class “A” of the aforementioned IPC concerning ‘Human Necessities‘, with the exclusion of patents with SPCs. The “A” class comprises a wide range of technologies in fields such as agriculture, foodstuffs, tobacco, personal or domestic articles, health, life saving and amusement, in addition to all technologies pertaining to medical or veterinary science and hygiene, sport, jewellery, wearing apparel and more.

These technology areas are particularly relevant for Italian and European businesses, and include sectors with high patent density and litigation volumes.

According to the UPC’s latest official data on the Court’s caseload, the Paris CD handled 39 cases (1 infringement action, 2 counterclaims for revocation, 35 revocation actions and 1 declaration of non-infringement action), and the Munich CD dealt with 5 cases (1 counterclaim for revocation and 4 revocation actions).

Had the Milan Central Division been operational from the beginning together with the Munich and Paris seats, approx. 2/3 of the cases handled by the Paris CD would have been filed before the Milan CD in accordance with the IPC class of the litigated patents.

Con la sentenza n. 2615/2024 del 4 marzo 2024, il Tribunale di Roma – Sezione Lavoro ha stabilito che l’influencer che opera in maniera stabile e continuativa è qualificabile come agente di commercio, con conseguente obbligo, per la società che lo ingaggia a scopi promozionali, di versare i contributi previdenziali alla Fondazione Enasarco (l’ente di previdenza di agenti e rappresentanti di commercio).

La ricorrente, società attiva nel commercio online di integratori alimentari, si era servita di alcuni influencer per la promozione dei propri prodotti sui social media, attribuendo loro anche un codice sconto personalizzato da condividere con i propri follower. L’inserimento del codice sconto al momento dell’acquisto avrebbe fruttato all’influencer ad esso associato un compenso a percentuale, in aggiunta al compenso fisso erogato per la pubblicazione dei contenuti.

All’esito di un’ispezione, Enasarco aveva accertato che i rapporti intercorrenti tra la società e gli influencer ingaggiati erano qualificabili come contratti di agenzia e aveva conseguentemente richiesto i contributi previdenziali ad essa dovuti e un pagamento sanzionatorio.

Avverso tale accertamento ispettivo la ricorrente ha proposto ricorso, non ritenendo sussistenti i presupposti di legge per inquadrare gli influencer quali agenti di commercio, ossia:

  • la stabile e continuativa promozione volta alla conclusione di contratti in una determinata zona e con riferimento ad una tipologia definita di potenziale clientela (art. 1742 c.c.). Infatti, secondo la ricorrente, l’attività di pubblicazione di contenuti sul web, seppur diretta ad attrarre vendite, non può essere considerata alla stregua dell’obbligazione dell’agente di promuovere la conclusione di contratti (a pena di inadempimento) e la non occasionalità del caso di specie era da ricondurre ad una “semplice convenienza economica”. Per la ricorrente si deve inoltre considerare che, con la modalità di promozione tipica dell’influencer, questi non ha un rapporto diretto col potenziale cliente, nei confronti del quale non svolge quindi una personale attività promozionale, né ha una zona e/o segmento commerciale ben precisi;
  • il vincolo di esclusiva (art. 1743 c.c.);
  • il dovere di rispettare le istruzioni del preponente (art. 1746 c.c.), dovere non pattuito nei contratti del caso di specie;
  • la retribuzione con provvigione (art. 1748 c.c.), perché la provvigione non è una prerogativa tipica solo della figura contrattuale dell’agenzia ed esistono diversi tipologie di compensi a percentuale che non sono provvigioni (es. le royalties);
  • il rispetto del termine di preavviso ex lege per il recesso (art. 1750 c.c.), termine non rispettato nei contratti del caso di specie.

Il Tribunale non ha però accolto le difese della ricorrente e ha concluso che l’influencer è qualificabile come agente di commercio.

Più nel dettaglio, ribaditi i caratteri essenziali dell’agenzia, ossia la continuità e la stabilità dell’attività dell’agente, il Tribunale ha rilevato che:

  • affinché si configuri un rapporto di agenzia occorre che vi sia un nesso di causalità tra l’opera promozionale dell’agente e la conclusione dell’affare, non intendendosi necessaria, quindi, ai fini della “promozione della conclusione di contratti” una effettiva ricerca del cliente o un atto con contenuto predeterminato (come, ad esempio, la propaganda o la predisposizione di contratti);
  • la mancata assegnazione di una specifica zona non può escludere che si configuri un contratto d’agenzia e, in ogni caso, per “zona designata” non deve intendersi solo la zona geografica, ma anche il segmento di mercato che, per l’influencer, è individuato dalla propria community;
  • nemmeno l’assenza del vincolo di esclusiva esclude che si abbia il contratto di agenzia, perché il diritto di esclusiva non è un elemento essenziale del contratto e può essere derogato dalle parti, così come il mancato rispetto del termine di preavviso, che non travolge né rende invalido il recesso e si risolve nell’automatica sostituzione della clausola nulla con la clausola imperativa che impone la concessione del preavviso.

Nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto ravvisabile un rapporto stabile e non episodico. Infatti, i contratti in essere con gli influencer erano stati stipulati a tempo indeterminato e la lunga durata del rapporto era comunque provata dalla presenza di estratti conto contabili delle provvigioni ricevute dagli influencer e dalla sistematica emissione di fatture per gli affari procurati attraverso la loro attività di marketing.

Ancora, per il Tribunale, l’attività dell’influencer può essere ricondotta a quella dell’agente perché la promozione, seppur svolta non “tradizionalmente” con la ricerca e la sollecitazione del cliente finale, ma attraverso la pubblicazione di post e stories destinati indistintamente alla propria community, aveva, in ogni caso, lo scopo di far acquisire all’azienda preponente nuovi clienti, per il cui buon fine l’influencer veniva (proprio come accade nel rapporto di agenzia).

Prosegue quindi il percorso che sta individuando e tracciando l’insieme di norme applicabili agli influencer operanti in Italia (ne abbiamo parlato sul nostro blog anche qui  e qui). Sotto il profilo giuslavoristico, il Tribunale di Roma, facendo proprio un orientamento già timidamente affermatosi tra i commentatori, ha per il momento confermato la qualificazione dell’influencer quale agente di commercio, anche se è stata affrontata anche l’ipotesi che il rapporto tra l’influencer e la società ingaggiatrice possa essere ascrivibile al contratto d’opera intellettuale.

Lo scorso aprile, durante il Consiglio UE Agricoltura, gli Stati membri hanno approvato all’unanimità la c.d. Direttiva Breakfast avente lo scopo di aggiornare ed armonizzare le norme di commercializzazione e diffusione di prodotti quali succhi di frutta, confetture, latte (disidratato) e miele nel territorio dell’UE.

Obiettivo fondamentale del provvedimento normativo è quello di contrastare le frodi alimentari fornendo una maggiore trasparenza sull’origine dei prodotti e, dunque, di aiutare non solo i consumatori ad effettuare delle scelte più sane e consapevoli, ma anche di fornire ai produttori degli strumenti utili alla tutela del proprio prodotto.

I prodotti coinvolti

Le principali novità della predetta normativa riguarderanno i prodotti di largo uso comune quali miele, latte (disidratato), succhi di frutta e confetture. 

Nello specifico, per il miele, attraverso l’etichettatura obbligatoria e chiaramente visibile, verrà indicato in ordine decrescente, in base al peso, il Paese di origine. Questo consentirà di contrastare le importazioni di miele adulterato da Paesi Terzi e creare un sistema di tracciabilità. Inoltre, gli Stati membri, all’interno dei propri territori, potranno concedere la possibilità di commercializzare il miele indicando nell’etichettatura solamente le quattro quote maggiori (se insieme costituiscono oltre il 50%) delle miscele utilizzate. 

Per il latte (disidratato), invece, potrà essere concesso l’uso di trattamenti per la produzione di prodotti a base di latte disidratato senza lattosio.

Per i succhi di frutta, conseguentemente alla crescente richiesta di prodotti a basso contenuto di zucchero, verranno introdotte tre categorie: “succo di frutta a tasso ridotto di zuccheri”, “succo di frutta da concentrato a tasso ridotto di zuccheri” e “succo di frutta concentrato a tasso ridotto di zuccheri”.  In aggiunta, sarà possibile apporre sull’etichetta la dicitura “i succhi di frutta contengono solo zuccheri naturalmente presenti”, allo scopo di rendere consapevoli i consumatori della differenza tra succhi di frutta (che non contengono zuccheri aggiunti e il cui contenuto di frutta varia dal 25% al 50%) e nettari di frutta (che hanno un contenuto minimo di frutta del 50%, 25% se tropicali e 40% se di albicocca). 

Per quanto riguarda le confetture, il contenuto minimo di frutta presente passerà da 350 grammi a 450 grammi per chilo nelle confetture e da 450 a 500 grammi per chilo nelle confetture extra.

Il commento della Coldiretti

La Coldiretti, tuttavia, non promuove a pieni voti tale Direttiva. Infatti, come dalla stessa affermato, se da un lato la normativa assicura una maggior tutela del miele e della sua produzione volta a contrastare l’import sleale di prodotti di scarsa qualità e a prezzi stracciati dall’estero, questa non fornisce altrettanta trasparenza per i prodotti quali succhi, confetture e marmellate, avendo cancellato l’obbligo dell’indicazione di origine della materia prima.

La Coldiretti, pertanto, ha lanciato una raccolta firme per rendere obbligatoria l’indicazione dell’origine in etichetta su tutti i prodotti alimentari in commercio nell’Unione Europea, insistendo sul principio di reciprocità in tema di sicurezza alimentare, tutela dell’ambiente e del lavoro degli agricoltori europei.

Le tempistiche

Sebbene formalmente la Direttiva Breakfast sia stata adottata dal Consiglio UE Agricoltura lo scorso aprile, le nuove misure saranno applicabili in tutta l’Unione Europea dopo due anni.

A quasi un anno dalla sua introduzione, è già possibile trarre utili indicazioni strategiche per affrontare le sfide e cogliere le opportunità create dal nuovo sistema

Introduzione

La riforma che ha cambiato radicalmente il sistema brevettuale in Europa, con l’istituzione del brevetto unitario e del Tribunale Unificato dei Brevetti (o, come indicato in inglese, “UPC”), è entrata in vigore da quasi un anno, ed è già possibile trarre qualche utile considerazione strategica per le imprese italiane circa l’utilizzo di questi nuovi strumenti.

Il brevetto unitario è un brevetto veramente internazionale, che produce effetti in 17 Paesi europei (evidenziati nella cartina riprodotta qui di seguito) fin dalla concessione ad opera dell’Ufficio Europeo Brevetti. Il richiedente mantiene ancora la possibilità di ottenere un brevetto europeo classico, in alternativa al brevetto unitario, ottenendo un titolo indipendente per ciascun Paese.

L’UPC invece è un nuovo tribunale sovranazionale, che ha competenza esclusiva per le azioni relative ai brevetti unitari, e competenza condivisa coi tribunali nazionali per le controversie riguardanti i brevetti europei tradizionali che siano stati convalidati nei paesi aderenti al nuovo sistema. Il titolare può al momento comunque esercitare il diritto a escludere tale competenza condivisa tramite opt-out del proprio titolo, che in tal caso rimane sottoposto alla giurisdizione esclusiva dei tribunali nazionali.

Con il nuovo sistema, ottenendo una singola decisione da parte dell’UPC è possibile impedire la contraffazione di un brevetto in tutti i 17 Paesi che partecipano al nuovo sistema (praticamente tutti i Paesi economicamente più importanti dell’UE, salvo Spagna e Polonia, per un mercato potenziale di oltre 300 milioni di persone). Quale rovescio della medaglia, il titolare è esposto al rischio che in esito a una domanda di nullità da parte del preteso contraffattore, con una singola decisione il brevetto venga annullato negli stessi 17 Paesi.

Opt-out: una scelta strategica

Ad oggi sono oltre 590.000 i brevetti europei tradizionali opted-out, rispetto ai quali cioè i rispettivi titolari hanno esercitato l’opzione di escludere la giurisdizione dell’UPC e mantenere la giurisdizione esclusiva dei tribunali nazionali, corrispondenti a circa un terzo del totale dei brevetti europei esistenti.

Sembra quindi che molte imprese abbiano adottato un approccio conservativo del tipo “wait and see”, preferendo rimanere fuori dal nuovo sistema, in attesa di valutare il funzionamento e in attesa di valutare il consolidamento della prima giurisprudenza dell’UPC su questioni sia sostanziali che procedurali. Numerosi titolari di brevetti hanno infatti esercitato l’opt-out indiscriminatamente per tutti i brevetti europei presenti nei loro portafogli.

Sarebbe tuttavia preferibile effettuare una valutazione caso per caso per ciascun singolo brevetto, valutando se mantenerlo all’interno del sistema UPC o invece esercitare l’opt-out sulla base di una serie di considerazioni strategiche, tra le quali:

  • forza del brevetto, intesa come capacità di resistere ad eventuali attacchi di validità;
  • rilevanza tecnologica della soluzione rivendicata;
  • presenza di concorrenti che potenzialmente potrebbero riprodurre la soluzione rivendicata e quindi essere attaccati dal titolare, e su quali mercati.

Un altro aspetto rilevante da sottolineare in tema di opt-out è che lo stesso può essere ritirato dal titolare del brevetto, per far rientrare il relativo brevetto europeo nell’ambito della giurisdizione UPC. Ciò accade quando, ad esempio, il titolare si stia preparando ad azionare detto brevetto avanti all’UPC stesso. Non è possibile tuttavia ritirare l’opt-out nel caso in cui sia già pendente un giudizio relativo a quel brevetto di fronte a un qualsiasi tribunale nazionale.

È dunque opportuno valutare con attenzione l’opportunità di mantenere opted-out un brevetto potenzialmente da azionare nei confronti di un concorrente, a fronte del rischio che quest’ultimo promuova una azione di c.d. “lock-out”, cioè un giudizio di nullità/non contraffazione del brevetto avanti a un tribunale nazionale che blocchi medesimo al di fuori della giurisdizione UPC. Dall’altra parte, questo tipo di azioni può essere un utile strumento difensivo per evitare una inibitoria pan-europea da parte dei soggetti potenzialmente contraffattori.

I primi casi avanti all’UPC

Nonostante l’alto numero di opt-out, in questi primi mesi di attività sono già stati promossi avanti all’UPC un buon numero di giudizi. Secondo le ultime statistiche pubblicate dal Tribunale stesso (disponibili a questo link), sono stati promossi 110 giudizi di contraffazione avanti alle Divisioni Locali e 28 azioni di nullità avanti alla Divisione Centrale, oltre a 29 procedimenti cautelari di vario tipo. L’elaborazione grafica che segue offre una panoramica di tutti i casi promossi:

In questi primi mesi i contenziosi tendono a concentrarsi soprattutto avanti alle quattro Divisioni Locali tedesche, e meno in altri Paesi. L’iniziale preferenza degli utenti del nuovo sistema per la Germania è probabilmente dovuta al fatto che quello tedesco è storicamente il foro più popolare per le controversie brevettuali in Europa e viene considerato maggiormente prevedibile. È comunque prevedibile una tendenza al progressivo riequilibro del carico di lavoro tra le Divisioni Locali anche non tedesche, favorito anche da un sempre maggiore utilizzo della lingua inglese.

La Divisione Locale di Milano ha gestito finora tre giudizi di merito (due dei quali sono stati seguiti dal nostro Studio per i propri clienti). Tra questi vi è stato un primo giudizio di contraffazione riguardante la pretesa violazione di un brevetto nell’ambito di un più ampio contenzioso internazionale tra due importanti player del settore della logistica, poi estinto in breve tempo a seguito di un accordo transattivo, e due casi paralleli relativi allo stesso brevetto nel settore tessile, azionato nei confronti di due soggetti diversi. Dopo aver ottenuto i primi provvedimenti di descrizione (preservation of evidence) emessi dall’UPC, eseguiti presso una fiera su un macchinario pretesamente contraffattivo, il titolare ha infatti promosso due giudizi ordinari di contraffazione, al momento in corso.

Nel futuro prossimo, tuttavia, Milano ospiterà non solo una Divisione Locale dell’UPC, ma anche una sede della Divisione Centrale. Nel sistema UPC, la Divisione Centrale (con sedi a Parigi, Monaco e presto Milano) è competente per le azioni di nullità dei brevetti. La terza sede era inizialmente prevista con sede a Londra ma, a seguito della Brexit, essa è stata riassegnata a Milano. La sede milanese comincerà ad operare entro la fine di giugno 2024 e avrà competenza sulle azioni di nullità dei brevetti che rientrano nella c.d. Classe A della Classificazione Internazionale dei Brevetti, inclusi quelli relativi a numerosi importanti settori industriali, a partire da quello farmaceutico (con l’esclusione però dei brevetti farmaceutici dotati di Certificato Complementare di Protezione), dei dispositivi medici, del settore agricolo, alimentare, dell’abbigliamento, degli elettrodomestici, dello sport e intrattenimento, e del tabacco e prodotti da fumo, tra gli altri.

Di conseguenza, Milano e l’Italia aumenteranno ulteriormente la propria centralità nel sistema brevettuale europeo.

Prospettive strategiche per le imprese italiane

L’UPC pone l’Europa al centro del panorama mondiale delle controversie in materia di brevetti. Con giudizi molto più rapidi di quelli dei tribunali nazionali (l’obiettivo del Tribunale è quello di emettere una decisione di primo grado in 12 mesi dall’avvio del giudizio) e decisioni con un impatto potenziale su un mercato di oltre 300 milioni di persone, l’UPC può diventare un’arma letale per i titolari di brevetti nei confronti di (pretesi) contraffattori. Ciò comporta inevitabilmente dei rischi per le imprese italiane, che si trovano esposte ad azioni di contraffazione brevettuale promosse da loro concorrenti stranieri, con tempi molto brevi per difendersi e un’altissima complessità tecnica delle difese.

Un ulteriore rischio significativo per le imprese italiane è quello di essere costrette a combattere battaglie decisive in “territorio straniero”, potendo il titolare del brevetto selezionare la Divisione Locale dove promuovere l’azione tra tutte quelle dove la contraffazione ha luogo (e quindi essenzialmente quasi ovunque, in caso di prodotti venduti su scala europea). Un buon esempio in questo senso è l’azione recentemente intentata dalla multinazionale della stampa AGFA contro l’italiana Gucci davanti alla Divisione Locale dell’UPC di Amburgo, in Germania, relativa alla pretesa violazione da parte di Gucci di uno dei brevetti AGFA che protegge un metodo di produzione per abbellire la pelle naturale con una immagine decorativa.

Il nuovo sistema UPC d’altro canto potrebbe rivelarsi un’opportunità per le imprese che sapranno sfruttarne le caratteristiche. Lo sviluppo di una solida strategia che parta dal momento della brevettazione, alla valutazione di un eventuale opt-out sui propri titoli, all’uso di nuovi strumenti processuali introdotti in Italia con il nuovo sistema quali ad esempio le protective letters (atti volti a prevenire la concessione di misure inibitorie inaudita altera parte a favore di concorrenti), alle valutazioni sull’opportunità di promuovere cause nazionali di lock-out, o giudizi di contraffazione avanti all’UPC selezionando accuratamente la Divisione Locale più adatta alle circostanze concrete, sono tutti aspetti che le imprese italiane dovranno tenere presente. In tale nuovo contesto, sarà fondamentale per le imprese ricevere una consulenza integrata, con avvocati e consulenti brevettuali a definire le strategie brevettuali, assicurandone l’efficacia competitiva di lungo periodo, la rilevanza strategica, anche in chiave contenziosa, e il ritorno finanziario.

Il contenzioso brevettuale non è mai stato così strategico per la sopravvivenza stessa delle aziende. Le imprese italiane dovrebbero fare buon uso delle armi di cui dispongono, difendendosi così dalle potenziali minacce e, soprattutto, sfruttando l’UPC come opportunità di crescita.

When using colours in internet and social media marketing strategies, companies are able to transmit values and emotions, thus enhancing the effectiveness of promotional messages. For this reason, the role of colour branding in the definition of brand identity is becoming increasingly fundamental for trademark rights. In particular, the role of eye-catching trademarks has become central to marketing strategies aimed at transmitting a distinctive message to the consumer. Here is where colour plays a powerful role in a product’s sensorial messaging and worth fighting for.  

An episode that allows us to understand the power a colour can possess is represented by a stunt conceived by Tiffany & Co in 2021. The American company published through its social media a photo of the well-known “blue box” in golden yellow instead of the iconic “Robin’s Egg” colour, claiming to have changed the brand’s distinctive colour. In fact it was just an April Fool’s joke, but the collective surprise demonstrated the central role that the colour had established in defining Tiffany’s brand identity.

The CJEU case-law on colour trademark

When we think of colour marks associated with brands there are many examples that come to mind. We immediately recognize the purple of Milka chocolate, the Canary Yellow of Post-it notes, the blue of Mattei biscuits, Ferrari red, Valentino’s Pink PP, and many more.

The possibility of registering colour combinations or tones as trademarks is expressly provided for in Article 7 of the Italian IP Code, but the requirement of graphic representation made it complex to obtain such protection for many years. Later, the Court of Justice of the EU clarified that a verbal description of the colour is sufficient for registration purposes if it is clear, self-contained, easily accessible, intelligible, and objective, and if “it enables the competent authorities to carry out the prior examination of registration applications” (see C-104/01 and C-49/02). How do you graphically represent a specific colour? This requirement is met by the indication of an internationally recognised colour identification code: the PANTONE colour code.

The CJEU also ruled that the graphic representation may not give rise to doubts as to its subject matter and scope. Indeed, in the well-known Red Bull GMBH v. EUIPO case (C-124/18), the Court upheld the EUIPO’s decision and declared their two-colour trademarks invalid because they consisted of the mere juxtaposition of colours, which did not permit the consumer “to perceive and recall a particular combination, thereby enabling him to make further purchases with certainty“. It is not sufficient to graphically represent the colour combination “in the abstract and without contours” by accompanying it with imprecise descriptions, rather the representation must consist of a “systematic arrangement” in which the colours are associated “in a predetermined and constant manner”.

Finally, the CJEU has limited the possibility of registering a single colour as a trademark to exceptional cases in which the colour has acquired distinctive character over time thanks to a concrete use leading the public to associate a specific colour with the goods distinguished by it. The acquisition of such evidence is today easily obtainable through the use of social media in marketing activities as happened to Glossier for the registration of the Millennial Pink as its trademark. Indeed, that brand was able to demonstrate to the USPTO the acquired distinctiveness of the trademark’s Millenial Pink colour used for product packaging, proving its brand association carried out through a promotional campaign on social networks.

The protection of colour trademarks in Italian rulings

The principles we have just seen have been applied by Italian case-law that recently has been more inclined to recognise the individualising power of monochromatic trademarks. It took various cases to secure protection.

First, an important decision was pronounced by the Court of Milan in 2008 in the so-called Ferrari case. The judge, having ascertained the infringement of Ferrari’s unregistered colour trademark recognized its absolute qualifying value and highlighted how the actual use of the colour represents a fundamental element for the purposes of comparative assessment, recognizing its association directly with Ferrari.

Then there was the well-known case decided by the Court of Turin relating to the “jaune-orangé” colour trademark used to distinguish Veuve Cliquot Champagne. The Court of Turin recognised its validity on several occasions – most recently on 4 March 2022 – in which the Court expressed some fundamental principles on colour trademarks. In particular, the Court of Turin stated that:

–  in the context of the assessment of confusability it is necessary to consider that the consumer, not usually having before him both distinctive signs, cannot compare at the same time the colour of the contested goods with the infringed colour trademark, but “only mentally compares what he sees with the imperfect memory and mnemonic image of the other“;

– the fact that the product is also distinguished by the word mark of the alleged infringer does not exclude infringement of the colour trademark, since it is necessary to consider the “interdependence between the similarity of the signs and that of the marked goods“: if the consumer is led to believe that the goods come from the same or a related company, this will be sufficient to consider there to be infringement by confusability.

More recently, there have been other decisions pronounced by Italian courts that have recognised intrinsic value of colour trademarks. However, as far as trademark notoriety is concerned, the most significant is certainly the case concerning Tiffany’s colour trademark, whose validity has been confirmed on several occasions by the Court of Milan, most recently on 10 January 2024. In justifying the validity of this colour trademark, the Judge stated that when the product, distinguished by the colour, is sold online, the risk of confusion for the public is greater because consumers cannot see “the physical specimen” and this makes the comparison between trademarks and products even more difficult. 

The risk of colour monopolisation

Despite this more favourable attitude of Italian case-law towards colour trademarks, there are still few rulings confirming their validity. This is because the judge must also take into account the interest of other economic operators. Indeed, the recognition of a chromatic trademark carries with it the risk of a monopoly situation on a tone or combination of colours to the disadvantage of other operators offering the same goods and services. Already in 2003 the CJEU had highlighted this issue. The danger is that the recognition of the validity of a colour trademark, which still does not have distinctive character, unduly restricts the availability of colours for competitors. For this reason, it is essential to limit registration only to cases where the brand is able to demonstrate acquired distinctiveness. This happens more likely in cases when the connection between the product and the colour is arbitrary and trademark registration is sought for a specific colour shade with its own distinctive character. This is also the reason why both Italian doctrine and case-law excludes the registration of primary colours, going so far as to deny the possibility of exploiting for that purpose any colour that the public may consider to have its own identity. It should also be considered that the risk of monopolisation is no less in cases where the distinctive sign is made up of several colours and where the mere juxtaposition of them does not enable the economic operators “to know the scope of the protection afforded to the proprietor of the trademark” (C- 49/02). For this reason, it has been argued that in assessing the validity of trademarks consisting of colour combinations it is necessary to consider whether their use was dictated by the nature of the product. If so, it is not distinctive. In any case, what remains is to wait and see what future claims are brought to court regarding colour trademarks and how Italian decisions will impact economic competition.

Gli influencer indirizzano le decisioni dei consumatori e sono in grado di catalizzare le tendenze di acquisto tanto da polverizzare la disponibilità dei prodotti sponsorizzati in una manciata di minuti. Va da sé che l’affidamento che il pubblico – e, in particolare, il pubblico giovanissimo appartenente alla Gen Z – ripone in tali soggetti ha reso necessario delineare il quadro normativo e sanzionatorio a cui sottoporre gli influencer.

Ma, prima di tutto, chi sono gli influencer?

Per dare una definizione di influencer occorre far riferimento all’intervento del gennaio 2024 dell’Autorità nazionale per le Garanzie nelle Comunicazioni (“AGCOM”). A livello sovranazionale, del tema si è interessata la Commissione sul mercato interno e sulla protezione dei consumatori (“IMCO”) del Parlamento europeo.

La definizione elaborata è per alcuni tratti condivisa. L’influencer è un soggetto che svolge un’attività economica con un fine di monetizzazione e che, secondo l’AGCOM, esercita una responsabilità editoriale sui contenuti che pubblica. Inoltre, secondo l’IMCO, con il proprio pubblico l’influencer costruisce una relazione di fiducia, basata sull’autenticità.

Le Linee Guida adottate nel gennaio 2024 rappresentano la prima tappa dell’iniziativa promossa nel luglio 2023 dall’AGCOM per tracciare l’insieme di norme applicabili agli influencer operanti in Italia. A tali Linee Guida seguirà la redazione di veri e propri codici di disciplina.

Nell’attesa, l’AGCOM ha ritenuto immediatamente applicabili agli influencer, in quanto veicolatori di contenuti audiovisivi,alcune disposizioni del T.U. sui servizi di media audiovisivi (anche detto “TUSMA”). Tuttavia, le norme del TUSMA individuate dall’AGCOM si applicano solo agli influencer che soddisfano certi requisiti quanto al numero di follower da cui sono seguiti su tutte le piattaforme e social media su cui essi operano, alla quantità di post pubblicati nell’anno precedente e al valore di engagement rate medio ottenuto negli ultimi 6 mesi (con l’eccezione degli artt. 41 e 42 del TUSMA, volti alla tutela di minori e consumatori, alla lotta all’incitamento all’odio e alla violazione della dignità umana, validi per tutti i creatori di contenuti).

Tra le disposizioni del TUSMA ritenute da subito applicabili agli influencer vi è l’obbligo di assicurare il rispetto del diritto d’autore nonché dei diritti ad esso connessi. In ogni caso, l’influencer è, anche a prescindere dal TUSMA, tenuto ad osservare le norme che regolano la proprietà intellettuale contenute nel codice della proprietà industriale e dalla legge sul diritto d’autore.

In questo contesto si inseriscono la dupe culture e il deinfluencing. I nuovi fenomeni risultano essere popolari soprattutto tra la Gen Z, la fascia di popolazione che maggiormente interagisce con il mondo online e che ripone più fiducia negli influencer che nei tradizionali canali di acquisto e di informazione. Inoltre, la Gen Z è maggiormente esposta alla contraffazione, in passato confinata ad un mondo fisico periferico.

Il termine dupe, abbreviazione di duplicate, a cui è sotteso anche il doppio significato di “inganno”, indica un prodotto che non nasconde di voler imitare l’articolo di riferimento originale. Il dupe viene presentato come un’alternativa economica, ma altro non è che una copia, che, come tale, si espone al rischio di integrare gli estremi della contraffazione dei diritti di marchio o di design, nonché dell’illecito civilistico della concorrenza sleale. Sono state recentemente registrate le prime decisioni in materia di dupe da parte della Corte d’Appello di Parigi. In un caso in cui un noto brand fast fashion aveva commercializzato un’ampia gamma di accessori e gioielli low cost imitativi dei modelli di una rinomata maison francese e, per di più, sempre nell’immediatezza del lancio degli originali, la Corte francese ha accertato la sussistenza di una condotta sleale parassitaria, dato il manifesto intento di voler sfruttare gli investimenti e la reputazione dei prodotti altrui (Celine c. Mango, C. App. Parigi, 10 novembre 2023, RG 21/19126).

Se di tali illeciti è sicuramente chiamato a rispondere il produttore di dupe, non è tuttavia da escludere che anche l’attività di promozione svolta dall’influencer possa essere sanzionata, a maggior ragione nei casi in cui la sponsorizzazione del prodotto avvenga in affiliazione col produttore e l’influencer ottenga una remunerazione. L’uso illecito potrebbe comunque dirsi perseguito anche nei casi in cui l’influencer agisca in autonomia, ossia col solo fine di accrescere la propria visibilità agli occhi del brand ed il proprio posizionamento sulla piattaforma per procacciare future collaborazioni.

Il deinfluencing, invece, consiste nella pratica di sconsigliare l’acquisto di un determinato prodotto, perché, ad esempio, ritenuto privo di pregi che ne giustifichino il prezzo.

Tale comportamento potrebbe integrare gli estremi di una pratica commerciale scorretta e, in particolare, della violazione delle norme poste a tutela pubblicità comparativa e ingannevole. Non solo: potrebbe addirittura riconoscersi una condotta anticoncorrenziale ove l’iniziativa di sconsigliare il prodotto fosse caldeggiata dai concorrenti del brand sconsigliato e potesse delinearsi un rapporto di concorrenza anche con l’influencer. Questo tipo di condotta potrebbe tuttavia essere più difficile da sanzionare in quanto il deinfluencing rientra nella libertà di manifestazione del pensiero costituzionalmente garantita.

L’influencer è diventato quindi un intermediario che il brand potrebbe iniziare a valutare di voler colpire (come, ad esempio, ha fatto Amazon nei confronti di due creatrici di contenuti nel novembre 2020), soprattutto considerato che i produttori di dupe risiedono usualmente in altre giurisdizioni.

L’Ufficio Europeo dei Brevetti (European Patent Office – EPO) ha pubblicato il Patent Index 2023, che fornisce una panoramica delle attività di deposito nell’Unione Europea nell’anno appena trascorso.

Il primo dato che si ricava è che i depositi di brevetti presso l’EPO nel 2023 sono aumentati del 2,9% rispetto all’anno precedente e ciò principalmente a causa dell’innovazione nei settori della trasformazione digitale ed ecologica.

In questo scenario, l’Italia emerge come uno dei Paesi europei in cui il deposito brevettuale è cresciuto maggiormente con 5.053 domande depositate e un incremento del 3,8% rispetto alle 4.867 domande di brevetto depositate nel 2022. Si tratta di una crescita superiore alla media europea (+1,4%) e che, se si considerano i Paesi con più di 5.000 domande depositate, è inferiore solo a quella della Gran Bretagna (+4,2%). Se si considerano, poi, i Paesi con almeno 1000 domande depositate, le crescite più consistenti sono state quelle di Finlandia (+9,2%) e Spagna (+6,9%).

La crescita dell’Italia dura ormai da diversi anni: infatti, le domande di brevetto sono cresciute del 38% rispetto a 10 anni fa (erano 3.704 le domande depositate nel 2013) e del 15% rispetto a 5 anni fa (erano 4.399 le domande depositate nel 2018).

Con questi numeri l’Italia si attesta all’undicesimo posto tra tutti i Paesi che presentano domande di brevetto all’EPO e al quinto posto tra i Paesi dell’Unione Europea, dietro Germania (24.966 domande), Francia (10.814 domande), Paesi Bassi (7.033 domande) e Svezia (5.139 domande). L’Italia, invece, è tra i primi Paesi come percentuale di adesione al nuovo sistema di brevetto europeo con effetto unitario (in vigore dal 1° giugno 2023) che consente di godere di una protezione in 17 Stati Membri dell’Unione Europea. In particolare, con 1.212 domande di brevetto europeo con effetto unitario presentate, l’Italia è al quarto posto tra i Paesi europei dietro a Germania (4.295 domande), Francia (1.585 domande) e Svizzera (1.254 domande), ma, considerando il numero complessivo di domande presentate, ha una percentuale di adesione al nuovo sistema unitario di poco inferiore solo a quella della Svizzera. I relativi dati sono disponibili online qui.

Nonostante la crescita in questione, c’è però ancora molta strada da fare se si mette in relazione il numero delle domande di brevetto depositate con la popolazione. L’Italia, infatti, presenta circa 85 domande per milione di abitanti. Un tasso ancora molto basso in Europa: in questa speciale classifica (disponibile online qui), infatti, la Svizzera occupa il primo posto con circa 1085 domande per milione di abitanti, seguita da Svezia, Danimarca, Finlandia e Paesi Bassi con oltre 400 domande per milione di abitanti, dalla Germania con circa 300 domande e da Austria, Belgio e Irlanda con oltre 200 domande per milione di abitanti.

I principali settori in cui sono state presentate le domande di brevetto all’EPO nel 2023 sono stati i settori della comunicazione digitale (comprese le tecnologie relative alle reti mobili), della tecnologia medica, della tecnologia informatica e di macchinari elettrici, apparati ed energia. Quest’ultimo è anche il settore che ha registrato la maggiore crescita rispetto al 2022 (+12,2%), spinto dalle nuove tecnologie per l’energia pulita, tra cui le batterie (+28%), a testimonianza della crescente attenzione alla sostenibilità.

Questi settori hanno guidato il trend di crescita della brevettazione anche in Italia, dove il più alto numero di domande di brevetto si è registrato nei settori dell’Handling (che comprende anche le tecnologie di imballaggio), dei trasporti (in cui l’innovazione ha verosimilmente riguardato in via principale le nuove tecnologie per il trasporto elettrico) e delle tecnologie mediche.

Non a caso, le prime cinque aziende in Italia per numero di domande di brevetto depositate nel 2023 sono state Coesia S.p.A. (157 domande depositate), Ferrari S.p.A. (121 domande depositate), Iveco Group (48 domande depositate), Pirelli & C. S.p.A. (44 domande depositate) e Chiesi Farmaceutici S.p.A. (43 domande depositate). Tali dati sono messi a disposizione dall’EPO sul proprio sito internet (disponibile online qui), ove sono riportate le dieci aziende italiane con il maggior numero di domande di brevetto depositate all’EPO nel 2023.

L’Italia, dunque, prosegue il proprio percorso di crescita nella brevettazione attuato negli ultimi anni. Nonostante un tasso di brevettazione ancora molto basso in Europa in relazione al numero di abitanti, l’Italia ha comunque registrato il proprio record di domande di brevetto depositate all’EPO in un singolo anno e un tasso di crescita tra i più elevati in Europa e molto superiore alla media dei Paesi europei, rispetto ai quali l’Italia ha anche una più alta percentuale di adesione al sistema di brevetto europeo con effetto unitario.

Questa crescita della brevettazione è stata trainata, oltre che dai settori manifatturieri in cui l’Italia è tradizionalmente forte, anche dai settori relativi ai processi di digitalizzazione e transizione green che sono quelli maggiormente cresciuti in termini di innovazione anche a livello europeo e globale.