Per settori merceologici identici o affini, non è più possibile adottare come segno distintivo il proprio nome anagrafico se lo stesso in precedenza è stato validamente registrato come marchio denominativo, ha acquisito notorietà ed è stato ceduto a terzi, salvo il suo impiego limitato secondo il principio di correttezza professionale.
È quanto emerge dalla pronuncia della Cassazione sul caso Fiorucci (no. 10826 del 25 maggio 2016), che ha ribadito come lo stesso diritto al nome trovi “se non una vera e propria elisione, una sicura compressione nell’ambito dell’attività economica e commerciale” laddove il suo titolare, a seguito di precedente registrazione e di acquisita notorietà del marchio contenente tale nome, l’abbia poi ceduto a terzi.
Il caso in esame interessa il noto designer ELIO FIORUCCI (recentemente scomparso) e le società a lui collegate, che dopo aver ceduto a società terze i marchi denominativi e figurativi contenenti il celebre nome dello stilista, hanno poi registrato e utilizzato altri marchi, tra cui “Love Therapy by Elio Fiorucci”, “Love Therapy Collection by Elio Fiorucci”, per abbigliamento, accessori e gadget, oltre che per contraddistinguere una particolare linea di dolcificanti a seguito di un contratto di cobranding stipulato con l’azienda leader mondiale di dolcificanti ipocalorici. Tuttavia, tali “nuovi” marchi, nella misura in cui contenevano il nome dello stilista, di fatto collidevano con gli “originari” marchi Fiorucci, ora di titolarità di società terze.
La Corte d’Appello di Milano, in sostanziale conferma della pronuncia di primo grado, aveva ritenuto legittimo l’uso del nome anagrafico del designer in questi “successivi” marchi, sulla considerazione che tale nome esprimeva semplicemente la personalità del Sig. Elio Fiorucci, con chiaro intento descrittivo e non distintivo. L’espressione “by Elio Fiorucci”, infatti, non aveva altro significato se non quello di manifestare l’apporto personale del designer alle attività in questione, il che escludeva ogni possibilità di illecito.
Secondo la Cassazione, tuttavia, la Corte d’Appello di Milano avrebbe “semplificato, per non dire banalizzato” la questione relativa all’uso del patronimico nella misura in cui avrebbe omesso di considerare tutte le attività svolte dalle società partecipate dallo stilista non recanti alcun apporto personale del Sig. Fiorucci, ragion per cui la Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, ha cassato la decisione con rinvio.
In una tal simile fattispecie, dove l’uso del proprio nome anagrafico, oltre a collidere con un noto marchio anteriore altrui, non trova alcuna ragione descrittiva con riferimento ai prodotti e servizi offerti, è ben ragionevole considerare una tale utilizzazione commerciale del patronimico come non conforme ai principi della correttezza professionale.
La Corte d’Appello di Milano dovrà, quindi, pronunciarci nuovamente sul caso e motivare la futura decisione tenendo presente che, per considerare lecito l’utilizzo di un segno distintivo contenente un patronimico che coincida con un precedente marchio registrato, è necessario che esista una concreta esigenza descrittiva in riferimento all’attività svolta (oltre che circostanziata ad un ambito limitato). In caso contrario, da un indebito sfruttamento della capacità evocativa del patronimico deriverebbero gli effetti illeciti di agganciamento e confusione.