In questi tempi di crisi economica, i canali di pubblicità tradizionali fanno sempre più fatica ad attrarre investimenti. Per contro, assistiamo al boom di canali alternativi come manifestazioni a premio, promozioni, coupon, premi, buoni sconto, voucher, gift cards ecc. nonché al successo planetario di siti web come Privalia e Groupon. Il successo di questi nuovi strumenti è dovuto alla loro capacità di intercettare le esigenze di parsimonia e risparmio che sono sempre più sentite dai consumatori europei. Una recente decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (caso C-428/11) affronta il tema, precisando alcuni dei limiti che devono essere rispettati dai soggetti che vogliano proporsi sul mercato dell’Unione utilizzando questi strumenti promozionali. In particolare, la sentenza della Corte riguarda la fattispecie dei messaggi pubblicitari che reclamizzano un prodotto o servizio attraverso la vincita di un premio. Secondo la Corte, costituisce pratica commerciale vietata dalla direttiva 2005/29/CE dare al consumatore la falsa impressione di aver già vinto un premio, quando egli è obbligato a versare del denaro o a sostenere un costo, di qualsiasi natura, per scoprire cosa ha vinto o prendere possesso del premio.
Nel 2008, numerose società diffondevano sul mercato britannico alcuni messaggi pubblicitari che reclamizzavano la vincita di premi. I messaggi diffusi ed i premi promessi erano diversi tra loro nei dettagli ma accomunati da alcune caratteristiche: il consumatore era informato di aver diritto a ricevere uno dei premi; al fine di scoprire il premio il consumatore poteva: i) chiamare un numero di telefono a tariffa maggiorata; ii) usare un servizio SMS; oppure iii) ottenere l’informazione via posta ordinaria. Veniva incoraggiata la via telefonica, con il risultato che i consumatori utilizzavano la modalità più costosa. Oltre ai costi telefonici, nella maggior parte dei casi, il consumatore doveva sostenere costi aggiuntivi, formalmente imputati a consegna del premio ed assicurazione del trasporto. Il 99% dei premi attribuiti erano di valore medio/basso con la conseguenza che gran parte dei costi servivano a finanziare l’acquisto del premio stesso. In sostanza, nella stragrande maggioranza dei casi il valore del premio ricevuto equivaleva ai costi sostenuti in spese telefoniche, di consegna e di assicurazione.
Dopo un lungo negoziato, l’Office of Fair Trading (infra OFT – ovvero l’authority incaricata di vigilare sull’applicazione della disciplina posta a protezione dei consumatori nel Regno Unito) conveniva le suddette società in giudizio dinanzi alla High Court of Justice. La tesi dell’OFT era che le promozioni delle convenute erano vietate in quanto ricadevano nell’ipotesi di cui al punto 31, lettera b), dell’Allegato I al Consumer Protection from Unfair Trading Regulations 2008 (SI 1277/2008) che include tra le pratiche considerate in ogni caso sleali quella di: “dare la falsa impressione che il consumatore abbia già vinto, vincerà o vincerà compiendo una determinata azione un premio o una vincita equivalente, mentre in effetti qualsiasi azione volta a reclamare il premio o altra vincita equivalente è subordinata al versamento di denaro o al sostenimento di costi da parte del consumatore”. La suddetta norma nazionale ricalca alla lettera il punto 31, lettera b), dell’Allegato I alla direttiva 2005/29/CE.
In primo grado, i giudici inglesi condannavano le società convenute in misura più limitata rispetto a quanto richiesto dall’OFT. In particolare, secondo la High Court of Justice, erano in ogni caso sleali le promesse di premio solo se il costo sostenuto dal consumatore: i) era di entità rilevante (eccedeva l’acquisto di un francobollo o il costo di una normale chiamata telefonica); ii) una parte dello stesso andava a vantaggio dell’impresa; iii) equivaleva sostanzialmente al valore del premio.
Le società soccombenti svolgevano appello dinanzi alla Court of Appeal (England & Wales – Civil Division) impugnando in particolare la parte della decisione di prime cure che considerava in ogni caso sleali quelle pratiche in cui il costo sostenuto dal consumatore rappresenta il valore dell’oggetto descritto come premio. Considerata la necessità di fare chiarezza sull’interpretazione della direttiva 2005/29/CE, i giudici d’appello sospendevano il procedimento e sottoponevano la questione alla Corte di Giustizia.
La Corte si è espressa con sentenza del 18 ottobre 2012 adottando un approccio chiaramente consumeristico. Essa ha stabilito che quando un’impresa promette un premio, è sleale ogni pratica che – ai fini della riscossione del premio – imponga al consumatore un qualsiasi costo, anche se irrisorio. Secondo la Corte, inoltre, è irrilevante che tale costo non procuri alcun vantaggio all’impresa ed è del pari irrilevante che alcune delle modalità previste per reclamare il premio siano gratuite.